La GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino apre il 24 ottobre una nuova stagione espositiva di grandi mostre legate alla storia e all’identità collezionistica del proprio patrimonio. L’impegno sin qui sostenuto dal museo nell’approfondire lo studio dell’arte degli anni Cinquanta ci offre ora un solido punto di partenza e un invito a proseguire oltre quel limite cronologico, verso un’approfondita considerazione di tutte le espressioni che a partire dal decennio successivo svilupparono in mille direzioni le più radicali implicazioni estetiche che quella prima grande stagione internazionale della pittura aveva raggiunto, tanto negli Stati Uniti quanto in Europa.
La principale eredità di Pollock – per usare le parole di Kaprow – era l’azione, il gesto liberato, il muoversi del corpo dell’artista in uno spazio fatto di dipinti che erano tracce di quella danza tra tele e colori. A quella traccia e a quello spazio costruito attraverso la forza generativa di un’azione è dedicata la mostra Il Teatro della Performance. Peter Brook, uno dei maggiori teorici del teatro contemporaneo, ha affermato che è sufficiente che il corpo di una persona attraversi lo spazio perché attorno a quell’azione, per quanto minima, si articoli in potenza tutta l’energia del teatro.
La mostra intende dunque presentare e analizzare spazi, forme e oggetti plasmati da quel passaggio, modellati dall’azione dell’artista, e mai davvero deserti da essa, anche dopo il compiersi della performance.
Il Teatro della Performance non è una mostra di documentazione, non si concentra sulla registrazione dell’atto, ma sulla scena del suo accadere. Intende presentare l’architettura e la fisicità del teatro che ha accolto l’azione, intende soffermarsi sulla struttura scenica creata dall’artista, sullo spazio pensato per dare luogo alla performance e spesso creato, o quanto meno, modificato dalla performance stessa, costruito per accumulo di tracce derivanti da atti, parole e oggetti di scena.
Sono presenti in mostra lavori seminali di alcuni tra i maggiori esponenti della ricerca performativa tra la fine degli anni ’50 e oggi. Ciascuno di questi artisti ha ‘costruito’ la scena, l’architettura, dei propri lavori con diversa attitudine.
La presentazione dell’approccio più sfogato, proprio del Gruppo Gutai, attraverso il lavoro di Katsuo Shiraga, renderà immediatamente visibile la forte relazione tra la stagione dell’action painting e l’utilizzo dell’intera energia corporea in una forma estrema di pittura che modella lo spazio attorno al movimento dell’artista.
Paul Mc Carthy raccoglie la medesima energia materica dei pittori del Gruppo Gutai per farla esplodere in provocatorie violenze di matrice sessuale di cui si presenteranno in mostra i luoghi, le architetture, a volte domestiche e a volte visionarie, dell’evento consumato. Herman Nitsch presenterà l’apparato cerimoniale delle sue performance, lavorando sulle insegne e gli spazi del rito.
L’attenzione per l’allestimento della scena e il ‘fondale’ dell’azione performativa di Gilbert & George sarà presentata attraverso alcuni disegni della serie General Jungle, in cui la potenzialità dello storyboard di un’immaginaria performance si amplifica in una dimensione spaziale che gioca tra il murales e il wallpaper.
Le opere di Marina Abramović costituiscono invece l’occasione per osservare il potere di modulare lo spazio scenico insito nella voce del performer, una sorta di architettura di suono che prende forma per azione del timbro, delle risonanze emotive, delle parole che costruiscono catene di immagini e hanno la forza di creare spazi in cui il pensiero può sostare.
La mostra presenterà anche alcuni lavori di John Bock la cui attitudine performativa non solo appronta una scena per la propria azione ma si esplica in sé come vera e propria costruzione di mondi. Bock è uno dei più interessanti esempi di un’attitudine performativa giunta a maturazione negli ultimi anni in cui il rapporto tra azione e spazio scenico, che la mostra intende indagare, sembra definitivamente sciogliersi in una sempre più densa costruzione di set che divengono l’ossatura stessa dei lavori, in cui le strutture di scena mutano senza soluzione di continuità in opere installative.
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