Un grande maestro, un fotografo innovativo, uno sciamano forse un misitco o un eremita. Questi termini sono forse limitativi per una figura monumentale come quella di Frederick Sommer, artefice di vere e proprie alchimie fotografiche in bianco e nero, dai fotomontaggi, ai soggetti evanescenti fino alle ossa dei coyote ed alle interiora di animali brutalmente fissate sullo sfondo bianco. Sommer era un’autodidatta e la fotografia diurna era la sua pratica preferita, un medium capace di portarlo in molteplici direzioni attraverso le oscure strade del processo creativo.
Nato nel 1905 nel sud dell’Italia e cresciuto in Brasile, Sommer si stabilì nel deserto dell’Arizona all’età di 30 anni e lì rimase fino alla sua morte nel 1999. L’infinita distesa desertica divenne presto il teatro di ogni sua creazione, dalle formazioni rocciose ai cactus, alle ossa scolorite dal sole. Sommers non smise mai di fissare con la sua macchina ogni aspetto della realtà silente che lo circondava, sino a giungere alla completa astrazione. La creatività di Sommers è in continuo equilibrio tra arte e realtà ma non si tratta della stessa ricerca portata avanti dagli artisti Neo-Dada come Allan Kaprow, Carolee Schneemann, Al Hansen, Alison Knowles o Dick Higgins.
Per Sommer realtà ed arte erano legate all’esperienza estetica e l’artista era fermamente convinto che l’arte avesse il potere di trasformare la percezione della realtà . “Se non fossimo capaci di sognare, non saremmo nemmeno in grado di percepire la realtà” questa frase di Frederick Sommer è forse la chiave di volta di tutta la sua opera, l’unica porta aperta in un universo abitato da fantasmi, presagi ed appunto visioni oniriche.
Nel corso della sua vita Frederick Sommer ha fatto tutto da solo. Ha fotografato qualunque cosa ed ha disegnato e dipinto quello che per lui aveva un senso, creando così una distinta continuità artistica, apparentemente senza che ciò gli costasse fatica alcuna. Le sue opere sono un paradigma oltre il regno dell’ordinario, oltre la politica e l’economia, mondi vuoti che ormai si sono impossessati dell’arte al punto che non è più possibile distinguerli o vederli.