Finalmente si è aperta Skin Fruit (in visione fino al 6 giugno 2010), la tanto attesa e criticata mostra del New Museum curata da Jeff Koons con opere provenienti direttamente dalla collezione del celebre dealer greco Dakis Joannou, il quale figura anche tra i benefattori del museo. Questo strano conflitto di interessi fu aspramente criticato lo scorso autunno, al momento della presentazione del progetto ed in molti furono concordi nel definirlo “una pessima idea“. Ed a giudicare da quello che possiamo vedere oggi nelle sale del New Museum non c’è che da confermare tale affermazione.
Le opere in mostra sono state selezionate ed installate in maniera del tutto caotica da Mr.Koons (vecchio amico di Joannou il quale possiede molte opere dell’artista), basti pensare al fatto che l’artista ha riempito gli spazi espositivi con ben 80 opere tra dipinti, sculture, disegni, video e performances creati da 50 artisti diversi. Ovviamente ci sono alcune opere decisamente interessanti ed alcune sorprese ma la stragrande maggioranza degli artisti sono grandi nomi come Mike Kelley e Cindy Sherman o nuove ma già celebri conoscenze come John Bock, Nathalie Djurberg e Dan Colen, insomma artisti che già fanno parte della scena dell’arte e le cui opere sono presenti in numerose collezioni private e museali. Tutto è preconfezionato e pronto per piacere, tutto si risolve in un giro di favore tra squali del mercato: “io faccio esporre il mio artista ed il tuo artista nel museo, così le quotazioni salgono e rivendiamo le sue opere ad un prezzo maggiore, così siamo tutti più ricchi e felici“. Con questa mostra il New Museum ha totalmente deragliato dalla sua missione iniziale di porsi come un’alternativa d’avanguardia ai musei tradizionali, divenendo un piccolo circolo di amici.
Jeff Koons ha organizzato una mini-fiera dell’arte, stando ben attento ad inserire opere di artisti come Richard Prince, Urs Fischer, Charles Ray, Chris Ofili e Takashi Murakami. Anche Maurizio Cattelan è presente alla mostra ma la sua opera raffigurante un manichino di cera con le fattezze di John F. Kennedy disteso nella sua bara, non è niente di nuovo sotto al sole. Forse è giunto il momento di cambiare registro poichè queste pompose manifestazioni ( come anche il Padiglione Italia alla scorsa Biennale di Venezia) rischiano di trasformare ogni mostra in una grande e noiosa asta.
Photo: Librado Romero/The New York Times
Luca Rossi 8 Marzo 2010 il 19:14
Ieri ho visitato la mostra collettiva curata da jeff koons al new museum di new york facendo una selezione dalla colazione di dakis joannau (sostenitore del new museum e grande collezionista dello stesso koons). La considero una mostra di passaggio; uno sguardo blockbuster al 900. Viviamo nei conflitti di interesse; chiunque se ha idee può fare meglio, o anche chi critica questa mostra in fondo ama il contorno glam e commerciale?
Il fatto che io consideri questa operazione interessante dovrebbe far capire che le critiche alle dinamiche “incestuose” del sistema italia, non sono tanto dirette ai “modi “quanto ai risultati inefficaci; o meglio delusori e illusori per tutti. Quando il mondo procede, quanto credete possa essere rilevante la “controbiennale dell’ennesimo milovan farronato”? Se non come analisi di un sintomo?
Mentre qualcuno si chiede che ruolo io abbia, la realtà è già più lucida (e da tempo) e vede un artista curare una mostra, piuttosto che un gallerista dirigere un museo (vedi koons e jeffrey deitch). In italia stiamo ancora a fare i commessi con l’etichettatrice in mano.
La mostra di koons è molto “iconica”, e, in questa chiave, non male. Anche se la mostra viene presa bonariamente in giro dal new york times come : la mostra mainstream del museo anti-mainstream. Da segnalare l’opera del nostro Roberto Cuoghi (artista che apprezzo anche) e che ha presentato la riproduzione gigante di un dio assiro presente in piccole dimensioni al Luovre. Opera che potrebbe appartenere a circa 200-300 artisti nel mondo. Nel senso che si tratta (anche quì) di esorbitare un buon riferimento colto, arrivando ad una sorta di spettacolarità ambigua e lugubre, tipica del nostro roberto cuoghi. Devo dire ottima scelta del riferimento colto. Mi sembra che vince chi pesca la citazione colta più interessante. Cosa succede se esorbitiamo una piccola riproduzione di un dio assiro? Visto che gli assiri sono stati una civiltà che dicono essere molto evoluta e quasi-sconosciuta? C’era un periodo in cui paola pivi faceva queste operazioni di ingigantimento. Potrebbe benissimo essere una sua opera (la stessa paola pivi ha interessi in civiltà pre-normali, vedi suo interesse intorno all’antica città di timbuctu). In quante case occidentali si vedono in bella mostra gingilli tribali/esotici/ancestrali? (semmai di una nuova linea-tribale dell’ikea) .Va bene essere coerenti con un proprio immaginario ben definito, però insomma, c’è sempre il rischio di esagerare e diventare “ripetitori” ossessivi. Meglio la canzone di cuoghi (fatta con centinaia di oggetti/strumenti) presentata all’ultima biennale. Molte altre opere in mostra soffrono di alcuni affaticamenti linguistici.
Micol Di Veroli 8 Marzo 2010 il 20:59
Molto vero.
Penso che a volte bisognerebbe tornare ad una sorta di mitopoiesi personale come sosteneva Stan Brakhage nel suo (ormai fuori stampa in Italia) “Metafore della Visione”. Mi sembra che cercare appigli colti per produrre un’opera sia fin troppo facile vista la debordante mancanza di informazioni del popolo Italiano. I nostri artisti sono divenuti moderni esploratori che elargiscono pietrine ed orologi agli autoctoni.