Per la sua retrospettiva al MoMa, Museum of Modern Art di New York, Marina Abramovic ha deciso di sedersi ad un tavolo nell’atrio del museo per ogni singolo giorno fino alla fine della mostra. Il tavolo è corredato da una sedia aggiuntiva, volutamente lasciata vuota ed a disposizione dei visitatori che sono invitati a sedersi su di essa. Questo generoso invito sfida ogni persona, dal rispettoso ammiratore al degenerato mitomane, a dominare la visione, il tempo e la psiche dell’artista.
Durante la preview dello show (che aprirà al pubblico dal 14 marzo al 31 maggio 2010), l’artista, fasciata da un bellissimo vestito color cremisi, si è seduta al tavolo di legno contornata da un quartetto di luci Klieg, quelle che si usano per illuminare i ring del pugilato per intenderci. La prima persona a sedersi di fronte a lei è stato Teching Hsieh, celebre artista che durante una sua performance si è chiuso in una prigione per 365 giorni. In seguito il picco drammatico ed emozionale della serata è stato raggiunto quando al tavolo si è seduto Ulay, collaboratore ed ex compagno di Marina Abramovic. I due si salutarono definitivamente nel 1988 dopo aver percorso, in direzioni opposte, 1.550 miglia della Grande Muraglia cinese incontrandosi a metà strada per dirsi addio. La scorsa serata, quando Ulay si è seduto, Marina Abramovic era visibilmente emozionata ed una lacrima è scesa dalla sua guancia, Ulay le ha teso una mano sopra il tavolo e l’artista l’ha afferrata, stringendola vigorosamente. Il momento è sembrato il seguito o la fine della performance sulla Grande Muraglia ed il vestito di Marina Abramovic era esattamente uguale a quello indossato durante quel celebre evento.
Dopo che Ullay ha abbandonato il tavolo ha continuato la sua performance sotto gli occhi di spettatori del calibro di Matthew Barney, Terence Koh, Kalup Linzy, Megan Palaima, Dara Friedman, Björk, Michael Stipe dei R.E.M, Gary Carrion-Murayari,Chuck Close ed il critico Jerry Saltz. Intanto, al sesto piano, il MoMa ha trasformato i suoi spazi espositivi in una sorta di reliquiario dedicato all’artista. Le centinaia di ossa che Marina Abramovic ha pulito con una spazzola durante la Biennale Di Venezia del 1997, sono ammassate l’una sull’altra formando una specie di montagna.
Di fronte alle ossa si staglia il van con cui l’artista ed Ullay hanno girato l’Europa e poco più in la dei performers (alcuni di essi nudi) rimettono in scena le sue opere. Viste d’insieme queste opere aiutano a comprendere quanto, negli ultimi 40 anni, la ricerca di Marina Abramovic si sia spinta oltre le barriere dell’arte, costringendo l’artista stessa a fatiche disumane, privazioni estreme e violenze psicologiche. In tutti questi anni Marina Abramovic ha ridefinito il ruolo di performer, trasformandolo in un quello di un indomito ricercatore dell’ignoto in grado di rischiare la propria vita ma riemergendo integro ed intatto agli innanzi occhi dello spettatore.
News from: Artinfo
Photo Copyright: Joshua Bright for The New York Times
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