Micol Di Veroli e Luca Rossi presentano un’intervista/dialogo sull’arte e sulle dinamiche artistiche, senza troppi convenevoli. Un confronto attivo mirato a chiarire posizioni e cercare nuove soluzioni qualora ce ne fossero.
MDV – Mi trovo in sintonia con molte delle tue dichiarazioni presenti sul blog Whitehouse ed è tristemente vero che le nostre giovani leve sono ormai simili a replicanti di altri artisti del panorama internazionale. Nel peggiore dei casi la nostra giovane arte si ritrova a produrre formazioni estetiche stile Ikea prive di ogni significato, nell’assurda e vana ricerca di un ermetismo che confonda le acque, sperando che lo spettatore non riesca ad agganciare un qualche riferimento colto del tutto inesistente. Io trovo che il vero problema risieda nella mancanza di documentazione e di studio, tu cosa ne pensi?
LR – Mancanza di studio, ma anche malafede più o meno consapevole. O consapevolezza di non poter/voler fare altro nella vita che un lavoro (apparentemente) eccitante e comodo come quello del “giovane artista”. Inoltre in italia viene vissuto un complesso di inferiorità sull’essere italiani. Questo favorisce una certa esterofilia e il mantenimento di un profilo basso, silenzioso e colto. Quindi assenza di un confronto critico, perchè sia ha sempre paura di essere i soliti italiani “bar sport” e polemici. Questo porta problemi di relativismo dove “tutto può andare” ed essere accettato e giustificabile. In fondo l’arte contemporanea viene vista (da alcuni) come materia “hobbistica”. Queste dinamiche portano risultati mediocri; nel migliore dei casi buoni standard sviluppati come “compie sbiadite” di quello che avviene sulla scena internazionale.
Al contrario credo che il contesto italiano potrebbe favorire lo sviluppo di un pensiero divergente, sia dal punto di vista istituzionale che del linguaggio. Per molti aspetti abbiamo le stesse caratteristiche dei paesi chiamati late comers. Mi riferisco a quei paesi poco sviluppati fino a pochi anni fà e che oggi stanno superando i paesi più sviluppati potendo “copiarli” senza commettere gli errori che i paesi più sviluppati hanno dovuto commettere nella sperimentazione e nelle problematiche fisiologiche del progresso.
MDV – Pensi che Marcel Duchamp abbia in un certo senso decretato l’inizio della fine dell’arte?
LR – Marcel Duchamp c’ha fatto una grande “dispetto”. Non lo vedo come un genio ma come una persona intelligente che si è trovata nel posto giusto e nel periodo storico giusto. Molto più facile la sua condizione di quella di un giovane artista oggi, dopo 100 anni.
Duchamp ha sicuramente aperto una porta e chiuso un portone (che è quasi chiuso). Siamo usciti da questa porta e da 100 anni stiamo giocando in un bel giardino. Il giardino è piacevole. Spesso alcuni hanno fatto buchi nella rete e sono scappati dimostrando che si può stare anche meglio. Nel 2010 anche scappare da questi buchi significa essere sempre nel medesimo giardino. C’è un legittimo sistema di gusto e di mercato che sostiene a spada tratta questo “giardino”. In ogni caso credo che l’arte contemporanea stia vivendo una fase di affaticamento del linguaggio, e sia ora di mettere maggiormente in discussione questo “giardino”. Semmai rientrare in casa; fare qualcosa insomma. Il sistema di gusto e di mercato deve avere la forza di riconformarsi, non si tratta certo della “fine” del mondo.
MDV – Tu stai già mettendo in discussione questo giardino, in fondo ora che ci troviamo in questo dialogo potrei tranquillamente asserire di essere io Luca Rossi o di esserlo anch’io. Del resto questa tua figura di critico, curatore, artista o semplicemente di alternativa ad un sistema o punto di confronto mi sembra un progetto collettivo, una sorta di opera intangibile che tenta di cambiare l’opera. Luca Rossi è una delle opere più singolari, affascinanti e creative degli ultimi anni, isn’t it?
LR – Luca Rossi è un’identità sacrificale e fuori controllo. Mi vengono in mente quelle lepri posticce che usano nelle corse dei cani. Questa identità serve a svelare quello che le persone hanno negli occhi. Io non sono più luca rossi di te, o di tutti quelli che si firmano luca rossi e lasciano commenti o aprono blog. Il ‘900 è un secolo che è stato ossessionato dal “controllo”. Mi sembra più interessante la perdita del controllo. Faccio un esempio. Cosa succederebbe se chiunque potesse esporre ovunque? Dopo un primo momento di euforia caotica dato dalla perdita del controllo, l’unico parametro sarebbero i contenuti proposti. Ognuno sentirebbe il peso di una certa “responsabilità”, e non rimarrebbe che concentrarsi sul “cosa” piuttosto che sul “dove”. Molti pensano che io sia megalomane, invece non è facile proporre un progetto per il Whitney piuttosto che in una galleria privata. Molti rincorrono “progetti” senza chiedersi quali contenuti hanno da proporre. Senza avere una reale urgenza. Sintetizzare ogni ruolo in uno (artista, critico, curatore, spettatore, gallerista e anche committente) costringe ad assumersi una grande responsabilità che, a sua volta, impone un confronto con la propria natura e le proprie urgenze.
MDV – Il superamento di limiti imposti dalla società e dal sistema dell’arte è stata la prerogativa di artisti come Robert Rauschenberg, Chris Burden e moltissimi altri. Oggi (ammesso che esistano) quali sono i limiti da superare?
L.R. Dobbiamo superare i codici tradizionali dell’arte contemporanea. Spesso la realtà è 2-3 volte più veloce. L’arte contemporanea rischia di fare il verso a se stessa e permanere sul posto. Recentemente ho scritto che Gino Strada potrebbe essere considerato un “picasso post-moderno” che lavora in sala operatoria nei suoi ospedali nel terzo mondo. Azioni, pitture e sculture ecc. Gino Strada ha 60 anni. Cosa significa se arriva un giovane artista di 30 anni intelligente come Massimo Grimaldi che come opera propone al Maxxi di Roma di finanziare un ospedale di Gino Strada? Quando Bill Gates, ogni anno, dona ad Emergency milioni di dollari? Come può essere vista l’operazione di Grimaldi? Io la vedo come un gesto “intelligente” e che nel migliore dei casi rappresenta un’opportunità artistica mancata o un grande gesto di disillusione (l’arte contemporanea non può più nulla è meglio che io doni tutto per beneficenza). Forse bisogna diventare più “cretini” rispetto a certi codici “intelligenti”, ma che ci costringono a muoverci con armi ormai spuntate.
Cosa significa superare i codici tradizionali dell’arte contemporanea? Dilatare il concetto di spazio no-profit; gestire la lontananza; superare le divisioni di ruolo; definire la propria urgenza prima di abbandonarsi all’artigianato dell’arte contemporanea o allo sfogo delle proprie ossessioni feticiste; eccetera eccetera. Potrei andare avanti a lungo.
MDV – Questa tua risposta riguardo al superamento dei limiti dell’arte contemporanea mi porta ancora a riflettere sul fenomeno Luca Rossi, figura evanescente ma estremamente reale che in poco tempo è riuscita a guadagnarsi l’attenzione di pubblico e media, generando reazioni costruttive e non poche critiche o invettive. Questo anche grazie ad (o a causa di) un sistema anestetizzato e prono che non riesce a guardare ad un palmo dal suo naso. Andare controcorrente e tornare ad una cultura meno fumosa e sibillina potrebbe realmente essere un superamento dei limiti. Come tu stesso hai asserito, chiunque può essere Luca Rossi, questo mi fa pensare a figure artistiche volutamente anonime come The Residents o Luther Blissett, l’anonimato creativo potrebbe essere un ulteriore superamento dei limiti in una scena pervasa dalla presenza invadente della figura dell’artista.
L.R. L’anonimato serve per generare una personalità de-frammentata che possa partire da una tabula rasa. Non è certo per nascondersi o fuggire come un ladro. Sono ben consapevole di tutto quello che ho scritto e non ho fatto altro che un critica legittima. L’anonimato non è certo una novità, e anche nella mia azione ha un valore presente ma marginale rispetto al resto.
Ho criticato un sistema perché, nel corso degli anni, ha dimostrato di non funzionare. E’ paradossale che alcune vittime di questo sistema (mi riferisco soprattutto agli operatori più giovani) non abbiano capito il mio “gesto d’amore” nei loro confronti. E non è vero che il problema sono strutture e scuole inadeguate. L’arte contemporanea ha il grande vantaggio di poter fare molto con poco. Anzi strutture poco presenti e rigide possono diventare un guinzaglio aperto o una catena con un’anella rotta.
MDV – Infine, la tua operazione di sottrazione visiva ottenuta cancellando le opere altrui da file immagine è la dichiarazione oggettiva di una necessità: in un mondo tempestato di immagini ed in una scena dove i giovani artisti sono ossessionati dal concetto dell’immagine ed ancora, dopo anni in cui si è pensato al modo di trasformare l’immagine, credo che sia questo il momento di sottrarsi all’immagine, di annullarla. Solo mediante questa scomparsa dell’immagine potremmo in futuro riappropriarci di essa. Per ora queste cancellazioni mi sembrano il superamento di un limite, tu cosa ne pensi?
L.R. Le cancellazioni vivono su più livelli e sempre dentro ad un supporto mediante (computer, rivista, ecc). Ma sono anche un innesco per un’opera che si sviluppa intorno. In questi fotomontaggi approssimativi c’è sempre la volontà di recuperare uno spazio più “sincero” e realistico. Al contrario il vuoto fa paura, il confronto con i contenuti provoca (in molti operatori) una vertigine di fronte ad un burrone. In fondo queste opere sono burroni che urlano per un confronto con i contenuti. L’arte contemporanea sta vivendo una deriva linguistica che la sta portando a fare il verso a se stessa, o innescare una “burocrazia della creatività”.
Allo stesso tempo il bombardamento di contenuti standard costringe un superficialità di fruizione e la mancanza di approfondimento. Questi progetti contengono anche questa consapevolezza. E quindi si sviluppano nel rapporto uno-a-uno, accettando anche (ma non solo) un pubblico abituato a vedere le mostre sul computer o sulle riviste. Mostre che spesso diventano migliori attraverso questa fruizione mediata. Quindi, esattamente come per il problema istituzionale (tu mi inviti/io partecipo), c’è un sereno superamento di una certa superficialità di fruizione.
Se l’arte non inizia a porsi certe problematiche è destinata a diventare una rispettabile forma di artigianato.