La nostra storia inizia tanto tempo fa nel regno di An Yang City, provincia di Henan, Cina. Qui nacque Zhang Huan, uno scricciolo senza grandi speranze di vita, ma con alcune vacche e una nonna che gli voleva molto bene. Questa è una favola d’altri tempi, di quelle che oggi servono di più, di quelle che affascinano e donano speranza, ma non ve la posso raccontare io. Se andrete la domenica pomeriggio (ore 18.00) al Pac, ve la racconteranno (gratis!).
Se si pensa alla figura dell’artista nella storia ci si trova sempre di fronte a personaggi carismatici, dalle vite avventuroso e burrascose, dalle vicende equivoche o spaventose; insomma di quei personaggi che una volta che ci lasciano le penne un bel biopic non glielo leva nessuno. Oggi, qui da noi, tutto ciò si è perso: l’artista è come me, senza aurea magica e, che resti tra noi, questo essere sceso dal piedistallo non credo gli abbia fatto proprio bene.
In Cina, invece, è ancora possibile avere l’aurea, la leggenda, e forse è questo che ha fatto la fortuna di Zhang Huan, nato povero e finito a dirigere una factory con centinaia di collaboratori.
Da giovane, Zhang, usava il suo corpo per protestare. Performance al limite del ribrezzo (altrui) per denunciare le condizioni di vita delle classi sociali più povere, era il 1994. Resistette per quattro anni, fuori e dentro dalla prigione, accusato di atti osceni in luogo pubblico e vessato in ogni sua iniziativa, così nel 1998 si trasferì a New York. Negli otto anni che seguirono raggiunge la popolarità mondiale e iniziò una trasformazione interiore che lo portò all’investitura come monaco laico buddista ed al ritorno in patria nel 2006, stufo della gabbia d’orata dello star system americano.
La mostra presentata al Pac non è un’antologica, lo stesso artista tiene molto che non venga considerata tale perchè non ha assolutamente finito le cose da dire. È piuttosto un racconto al contrario, si parte dalla fine per arrivare all’inizio, dall’anima al corpo. Così nel cortile ci accolgono le prime grandi sculture, Buddha Hand e Peace 1, la mano di Buddha, appunto, e un uomo sospeso a mò di batacchio accanto ad una campana. Questa scultura è il simbolo del cambiamento, Zhang la fece proprio l’anno in cui decise di tornare in Cina, il corpo sospeso è il suo e la campana, seppur ricoperta di simboli buddisti, ha una forma occidentale, proprio ad indicare il tentativo di mediazione tra le due culture. All’interno poi troveremo altri riferimenti a Buddha, la grande attrazione della mostra Berlin Buddha, e diverse maquette o piccole sculture analoghe per simboli e riferimenti.
Un’esposizione nel complesso molto piacevole, equilibrata e abbastanza completa nel tracciare un ritratto di questo artista carismatico. Personalmente mi ha entusiasmata soprattutto la quarta sala dove le opere dimenticano l’uomo a favore della natura e svelano una delicatezza profonda; ma di certo hanno maggior peso gli ash paintings per i quali Huan è conosciuto in tutto il mondo. Tele dipinte con la cenere raccolta nei templi buddisti i cui soggetti sono ripresi fedelmente dalle immagini iconografiche della cultura cinese. Superando quell’impatto un pò kitsch del viso di Mao aerografato stile santino di partito, è rassicurante pensare che un prodotto di scarto come la cenere possa rinascere, come se dalle preghiere del popolo cinese sorgesse speranza. E così, tutto ciò che viene riprodotto con la cenere, acquista la giusta importanza, quella terrena, che nulla ha a che vedere con la reincarnazione che, fortunatamente, spetta solo i buddisti.
È una bella favola questa, quella di Ashman, un essere mistico che “Porterà a Milano una profonda, universale, armonia per l’umanità», parola di Zhang Huan.