Il 15 ottobre la galleria Ingresso Pericoloso di Roma inaugura la mostra L’identità frammentata di Pablo Rubio a cura di Angel Moya Garcia. Il lavoro dell’artista spagnolo (Cordoba, Spagna, 1974) si focalizza sulla rielaborazione dei ricordi e della memoria latente, per preservare un’identità che trema ogni giorno per l’imminente minaccia della sua scomparsa. Così, immerso in una dialettica dello spazio e del vissuto personale, costruisce testimonianze appena abbozzate, come malinconiche presenze nella nebbia, che si sovrappongono e si riproducono in ritmi reiteranti.
In quest’ottica, “L’identità frammentata” si sviluppa come una riflessione sulla graduale decostruzione della soggettività, e di conseguenza dell’identità, provocata dalla storiografia filosofica dell’ultimo secolo. Dall’ermeneutica tedesca passando per la frammentazione foucaultiana fino ad arrivare al pensiero debole italiano, l’individuo si è trovato a con-vivere all’interno di una collettività senza membri singoli. Una comunità che nasconde, cela o vieta qualunque proposta individuale e in cui il soggetto viene ridotto al mero rapporto con gli altri senza mai avere un’autonomia e un’ontologia propria.Nella prima sala, tutte le pareti della galleria sono riempite da autoritratti dell’artista. Un’infinità di maschere nascondono l’identità, la frammentano e la deformano, costruendo paradossalmente uno specchio che riflette solo la propria immagine. Sguardi rotti che urlano, volti apparentemente identici che si sovrastano nella loro finzione e stati d’animo e atteggiamenti che s’interpellano reciprocamente. Nella seconda sala, le teorie e i paradigmi che ci hanno preceduto iniziano a indebolirsi e a sciogliersi nella propria autoreferenzialità. Le pagine che trattengono i ricordi e conformano la memoria collettiva si svincolano dal corpo della storia. Diventando leggere, precipitano irrimediabilmente verso il pavimento, rifiutando le teorie di Maurice Halbwachs e istigando a dimenticare consapevolmente tutto il finora.
Infine, la terza sala è occupata da un’installazione di corde nere aggrovigliate che, scendendo dal soffitto, si aggirano sopra i visitatori come una grotta piena di stalattiti che gocciolano pensieri di un passato mai concluso definitivamente. In questo modo, se le radici degli alberi sono soprattutto un organo per l’assorbimento di acqua e sali minerali, ma anche di conduzione, riserva e ancoraggio al terreno, nelle sue opere le corde non toccano mai terra, rimangono sospese, negando qualunque vincolo con le proprie radici e con il proprio passato.