Anche se probabilmente la pellicola è ancora superiore o quantomeno con le sue imperfezioni riesce a ricreare un vasto spettro di ricordi in ognuno di noi, il digitale ha praticamente invaso il mondo della fotografia. L’arte contemporanea, da par suo, si è letteralmente aperta a questo dirompente assalto ed anche se questa trasformazione ha spalancato le porte a nuove e meravigliose visioni, negli ultimi tempi le cose sono un tantino cambiate e tutto è divenuto un poco noiosetto.
Questo forse perchè tra gli artisti c’è troppa ossessione per il lato tecnico, per la perfezione delle luci e dei soggetti. C’è troppo lavoro su Photoshop, ci sono troppi trucchetti che ormai tutti conoscono, ed infine troppi plugins sviluppati da terze parti che livellano ogni immagine, rendendola identica ad un milione di altre. Mancano le idee ma soprattutto manca la spontaneità, abbondano i pixel, le lenti speciali e le luci fluo. Ma ostentare estetiche impeccabili non è la giusta soluzione, visto che i magazine di moda lo fanno già da diverso tempo tra l’indifferenza generale. Fortunatamente la scrivente si è recentemente imbattuta in un nuovo filone creativo sostenuto da molti giovani artisti che scelgono le poetiche imperfezioni piuttosto che le piatte perfezioni. Si tratta di una sorta di ritorno alle orgini, una tendenza che non conosce limiti territoriali e forse è proprio l’imprevedibilità che trapela dalle immagini di questi giovani artisti la caratteristica mancante, quel senso dell’ignoto e del non voluto che fa comunque parte del processo creativo.
Del resto anche le foto di Nan Goldin non sono mai state tecnicamente perfette, eppure la spontaneità che trapela da quelle immagini è la caratteristica che le rende uniche, le rende opere d’arte. Flash sparati in faccia, soggetti sciatti e scomposti, luci fuori posto e sovraesposizioni a go-go. Forse sarà manierismo anche questo, ma come farne a meno?