Sono passati un po’ di giorni dall’inaugurazione di Terre vulnerabili all’Hangar Bicocca di Milano. Ne scrivo solo ora perché avevo bisogno di lasciar sedimentare ciò che avevo visto. Come un seme che viene messo nel terreno e poi annaffiato (e la metafora non è casuale, capirete poi), anche l’arte ha bisogno di essere curata. Nulla di strano, d’altronde chi lavora con l’arte nel suo momento di esposizione al pubblico si chiama curatore: una figura che dovrebbe, appunto, annaffiare l’artista affinché la sua arte cresca forte e bella. È che poi invece, nella società di oggi, siamo abituati al qui e subito. Ai giudizi affrettati e sommari, al sentito dire piuttosto che alla critica ragionata e alle cose digerite con calma. Per fortuna ci sono spazi come l’Hangar, dove ti impediscono di fare di corsa. Dove per vedere una mostra devi prenderti mezza giornata libera e ti porti pure i compiti a casa.
Già solo il concetto alla base dell’esposizione ci fa capire di essere di fronte a qualcosa di fuori dagli schemi: una curatrice che si mette in mezzo agli artisti e ci lavora assieme per far nascere un progetto in continua evoluzione. Chiara Bertola, con Andrea Lissoni, si è messa di traverso e ha costretto gli artisti a mettersi in gioco per creare, in sinergia tra di loro, le opere che poi saranno esposte. Le opere visibili adesso, non spariranno nella prossima fase, ma verranno integrate, riutilizzate, trasformate dai nuovi nomi coinvolti; inserendosi così in un processo ciclico ispirato alle fasi lunari. Nulla si crea, ma tutto si trasforma e nessuno può sapere ciò che succederà da qui ai prossimi otto mesi, l’unico sarà seguire dal vivo le evoluzioni di Terre vulnerabili.
Ma cosa possiamo vedere oggi, alla partenza di questo progetto dall’appeal internazionale? Il primo quarto di luna parla di vulnerabilità. Parola che oggi guardata con sospetto, certo il debole fallisce, ma qui non va in scena arte debole, tutt’altro: si esorcizza la nostra condizione umana e si riflette su ciò che l’uomo crede di poter lasciare indietro, ma che fa parte di ognuno di noi. Vulnerabilità appunto che parte dalla terra, dalle radici e così come sottotitolo illuminante si scelgono le parole di Yona Friedman “Le soluzioni vere vengono dal basso”. E in basso, ancora una volta, ci siamo noi, gli uomini che solo ammettendo i nostri limiti possiamo trasformarli in forza.
E se ci mancasse l’ispirazione ecco che ci aiutano gli artisti che aprono le danze. Ce n’è per tutti i gusti, così come le vulnerabilità sono plurime. L’attenzione cade in particolare sui materiali utilizzati, anch’essi delicati: crine di cavallo per Christiane Löhr, ghiaccio per Elisabetta di Maggio, vetro per Mona Hatoum. E cade anche sulle poetiche così differenti rappresentate: se i disegni animati con cui Yona Friedman spiega il nostro mondo agli extra-terrestri sono ironici e pungenti, è invece decisamente metafisico e leggero (in tutti i sensi) il gioco del foglio di carta che Alberto Garutti lascia cadere dal punto più alto dell’Hangar. Giocano con la percezione e la facilità con cui l’occhio umano si inganna sia Hans Op de Beeck che il duo Ackroyd & Harvey. Il primo con un’installazione video che svela trucchetti scenici e affascina allo stesso tempo: su un fondale neutro vengono allestiti e distrutti paesaggi e ambientazioni che per un attimo ci sembreranno veri, un gioco di continui rimandi al mondo teatrale. Dan Harvey e Heather Ackroyd invece hanno conquistato tutti con l’enorme tela coltivata. La precarietà del “dipinto” che rappresenta il volto rugoso di un’anziana emana tutto il fascino dell’evento irripetibile, anche solo perché non si può prevedere la crescita o la morte dei fili d’erba.
Così, accanto alla fragilità, emerge l’altro elemento fondamentale: l’amore. Amore per l’arte e per ciò che l’alimenta, l’amore che ci fa prender cura di ciò che è fragile e, spero, quello che vi spingerà fino all’Hangar per vedere il primo quarto di luna.
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