Pochi giorni fa leggevo un’intervista in cui Massimiliano Gioni faceva notare l’assurda dicotomia che viviamo ogni giorno: da una parte il corpo sovraesposto e le immagini irreali della pubblicità che più scandalizzano più vendono, dall’altra l’arte contemporanea censurata senza discernimento, vedi il caso Cattelan a Milano.
Questione di ruoli diceva. Mi piace pensare che sia una questione di profondità: il marketing vince sul qui ed ora, lavora solo ed esclusivamente in superficie. L’arte invece, se fatta bene, scava, arriva nelle viscere, ci trafigge in profondità, ma allo stesso tempo è fatta di immagini, di gusto, di superfici. Forse per questo diventa più facile attaccare l’arte, oggi così indifesa e da sempre difficile da comprendere.
Dicono che la prima impressione sia la più difficile da cambiare e si forma in pochi secondi. Quando ho varcato la soglia della Galleria Pack (Foro Bonaparte, Milano) e mi sono trovata di fronte i ritratti di donne di Matteo Basilé è stato come ricevere un pugno alla bocca dello stomaco. Forte e ben assestato.
Quei volti che mi sovrastavano, così nitidi e belli nel loro essere distanti dalla realtà parlavano ai presenti: dolore, disperazione, stanchezza, fierezza, emozioni forti condensate in ogni scatto. Le immagini, certo, sono violente. Si vedono il sangue, le ferite, le lacrime, ma si vedono anche i pori, i peli, le imperfezioni. L’iperrealismo di chi è concentrato a cogliere l’essenza di ciò che vuole rappresentare, Matteo Basilè non è il guardone che spia dal buco della serratura, ma si piazza in mezzo al campo di battaglia.
Non a caso questo nuovo lavoro, intitolato THISHUMANITY prende spunto da uno dei massimi capolavori del tardo gotico fiorentino, La Battaglia di San Romano di Paolo Uccello (1397-1475). Il trittico era stato commissionato per onorare la vincita di una battaglia, con tecniche prospettiche innovative per l’epoca Paolo Uccello aveva cristallizzato la battaglia nel momento prima dell’attacco finale. Partendo dallo stesso schema prospettico Basilé rappresenta invece l’affondo. Un groviglio di corpi tesi nell’atto di violenza, ma sono corpi femminili. Donne di età e provenienze diverse che combattono ferocemente per impossessarsi di qualcosa: la propria umanità.
È strano e rassicurante che un messaggio così femminista venga raccontato da un uomo, che ha saputo davvero cogliere la forza di un genere, la necessità di ritrovare un’identità che ancora oggi non ci è riconosciuta. E certo, le fotografie sono esotiche, frutto del suo lavoro nel sud est asiatico, ma è evidente che il discorso è generale. La seconda parte del progetto è formata invece dai centoquaranta ritratti, di cui solo una parte è esposta alla Galleria Pack, di donne.
Una femminilità tutt’altro che confortante, che mostra sulla pelle le stigmate della lotta. Un messaggio d’amore e di rispetto, quello di Basilé, che mi ha colpita profondamente per la genuinità e la facilità di comprensione da una parte e violenza di rappresentazione dall’altra. Ancora una volta l’artista è riuscito nell’arduo compito di trasformare una fotografia in messaggio universale. I suoi volti, icone un po’ fuori dal tempo, ci permettono di leggere facilmente la storia rappresentata e di interrogarci solo nella misura in cui ne siamo capaci.