Il Museo del ‘900 a Milano lo attendevamo da tempo, alzando gli occhi in piazza Duomo e chiedendoci cosa ci fosse dietro a quelle impalcature ornate da maxischermo utile solo per le partite. Smantellato il supporto già macina cifre d’affluenza da record, complici i giorni di vacanza per l’Immacolata (durante i quali parrebbe che i milanesi non abbiano più i soldi per scappare via dalla città) e l’ingresso gratuito fino a febbraio.
Un tributo alla città, e all’arte del secolo scorso a cui Milano a dato tanto, necessario e voluto. Non da meno soddisfa (in parte) la mancanza di strutture pubbliche con un patrimonio artistico proprio, con Palazzo Reale e Pac che presentano eventi temporanei dagli esisti incerti e collezioni comunali nascoste o non valorizzate. Infine sarebbe sciocco non pensare che sia una grande attrazione turistica, che magari Milano riesca a scansare per un attimo l’immagine della città per lo shopping accostandovi un’anima culturale?
Certamente non potevo non correre a vedere i risultati di questi anni di lavoro appena possibile. Ci andai all’apertura il sei dicembre e ci sono ritornata ad una settimana di distanza per tirare le somme rispetto al primo impatto. La visita al museo per milanesi, e non, credo sia d’obbligo, anche solo per approfittare della politica gratuita prima di scoprire a quanto metteranno il prezzo d’ingresso. Ma soprattutto perché il museo strutturalmente è pregevole e la collezione non da poco. Grazie al percorso cronologico si ha la possibilità di ripassare quella parte di storia dell’arte che a scuola non si arriva mai a fare, ma che dovrebbe rammentarci che l’Italia da sempre è patria di eccellenze artistiche, che vista la situazione del paese oggi, forse è una delle poche cose di cui andar fieri.
Il museo è grande e visitandolo velocemente, senza audio-guida e senza leggere ogni pannello, ci vogliono comunque almeno un paio d’ore. Per questo motivo, e perché non sono una storica d’arte, il mio sarà un semplice resoconto della visita. Mi prenderò però la libertà di segnalare opere che ho gradito particolarmente o altre informazioni utili elencandovi le sezioni così come le incontrerete nel percorso espositivo, anche perché all’entrata non troverete nessun materiale informativo.
Il quarto stato di Pellizza da Volpedo. Non serve commentare, salire la rampa elicoidale e trovarselo davanti vale l’ingresso. L’avanguardia internazionale. Ci si incunea tutti all’ingresso con questa piccola stanzetta in cui la security è costretta a fare il vigile per far defluire le persone. Ritratto di Paul Guillaume di Amedeo Modigliani è effettivamente ipnotico.
Boccioni.
Futurismo.
Giorgio Morandi. Dopo la motricità dei futurismo le sue nature morte sono boccate d’aria fresca, è un gioco di rimandi intelligente e velato.
Giorgio De Chirico.
Arturo Martini.
A questo punto c’è un bivio, col senno di poi consiglio vivamente di continuare il percorso espositivo e poi tornare qui, nonostante la guardia (a cui non si chiede di intendersi d’arte) vi dirà che vi conviene prima la parte degli archivi che è un vicolo cieco.
Cosa si trova in questa ala separata? Per prima cosa l’Archivio Futurista, una raccolta notevole che però sembra chiusa al pubblico. E a seguire tutta la sezione più contemporanea del museo, che cronologicamente viene dopo e non si capisce bene perché è stata messa a metà percorso. La posizione svantaggiata fa si che metà delle persone non la visitano, ma è una delle sezioni che preferisco.
Arte programmatica e cinetica. Sorprendentemente insuperata per alcuni aspetti dagli artisti odierni. Un esempio su tutti l’opera di Gabriele De Vecchi Ambiente – strutturazione a parametri virtuali: un stanzino al cui interno si muovono fasci di luce, quanti i tentativi di imitazione di quell’effetto di spaesamento nell’ultimo periodo.
Pittura Analitica. Bisognerebbe avere una sedia per immergersi in Permanenza blu di Claudio Olivieri.
Nuove figurazioni. Con Mario Schifano che ci porta in un istante negli Stati Uniti, perché bisogna saper guardare oltre e parlare linguaggi universali, come in Particolare di esterno (Coca Cola).
Luciano Fabro.
Arte Povera. Pier Paolo Calzolari sembra sfacciatamente prendere in giro lo spettatore con Rapsodie inepte e flirta con Mario Merz che sornione risponde con Fibonacci.
Nelle salette accanto troverete la collezione del Museo Marino Marini. Poco illuminate e poco spiegate, un solo pannello con testo, peccato che le sale non siano contigue quindi potrebbe sorgere il dubbio che non si tratti della stessa sezione. Un vero peccato.
Riprendiamo il percorso espositivo.
Il Novecento.
Il paesaggio tra le due guerre.
Arte monumentale. Tre sezioni veramente tristi, ma d’altronde non erano tempi lieti, esprimono perfettamente i sentimenti di un periodo cupo della storia italiana e mondiale.
Post impressionismi, arcaismi e realismi. Serie difficoltà nel fare chiarezza.
Fausto Melotti.
Astrattismi. Qui si apre finalmente lo spazio e ci si trova di fronte a delle scale mobili per salire. La gente esausta si fionda sui divanetti perché durante il percorso non troverete altro riposo. Le opere sono un mix inefficace, ma nessuno se ne interessa: o si rilassa o corre sulle scale mobili per andare avanti. Bisognerebbe invece soffermarsi sui due libri nella teca a sinistra: Vincenzo Agnetti e Emilio Isgrò mandano un messaggio di un’attualità sconcertante.
Lucio Fontana. Senza parole, il neon pensato per la Triennale con sfondo il Duomo sono pura bellezza. Ma attenzione nessuno vi indicherà che ci sono anche le tele nella stanza sopra, salite le scalette ai lati!
Alberto Burri. Tutte le sfaccettature di un artista criptico, la sua matericità può lasciare interdetti, ma non è altro che espressione di umanità in cui riconoscersi.
Milano anni ’50.
Informale segnico e gestuale. Si scorge la fine del percorso e questa sezione, complessa da affrontare, rischia di essere saltata a piè pari per stanchezza.
Piero Manzoni e Azimuth. Relegato in una stanzina Manzoni non la va a dire, potrei restare un giorno intero solo a sentire i commenti del pubblico di fronte alla Merda d’artista. Cinico e sagace, chissà cosa avrebbe escogitato se non fosse morto prematuramente. La sua capacità da provocatore sottile non è stata ereditata da nessuno.
E così finisce il viaggio nel ‘900. Si passerebbe anche in mezzo a una stanza sponsorizzata con video, un’altra con opere temporanee e infine nel corridoio per l’uscita troveremmo sedute dal dubbio gusto e le opere fotografiche della collezione della banca americana che sponsorizza l’apertura gratuita. Faremo finta che tutto ciò non esiste. Soprattutto non commenteremo il fatto che sia una banca americana a permetterci di godere del museo.
Per concludere velocemente: ciò che proprio no va. La comunicazione è un tasto dolente: il sito manca di contenuti utili, all’ingresso manca materiale cartaceo, i pannelli informativi lungo il percorso sono posizionati nei punti di passaggio, creando ingorghi, e sono scritti vacuamente. Mancano sedute per riposare e se ci sono son messe a caso (ne ho vista una sotto a un quadro!) e i servizi igienici sono solo nascosti all’interno di un labirinto nel sotterraneo oppure nell’ala separata. La struttura originale dell’Arengario è molto bella, non altrettanto si può dire degli allestimenti (muri aggiunti ed elementi d’arredo) di uno stile morbido e un po’ troppo giocattoloso, che non è sgradevole, ma la classica linea di design che stufa dopo una stagione.
Ai posteri l’ardua sentenza…