Per fortuna ci sono anche alcuni premi che fanno si che film come questo escano nelle sale. L’ho visto nella sala piccola al 4 fontane, ovviamente, poco più grande di alcune tv HD che si narra i ricchi posseggano, se ne esistono ancora. Purtroppo l’ho visto doppiato, ma a quello mi sono arreso.
Kill Me Please è l’opera seconda del regista francese Olias Barco, già autore di «Snowboarder» del 2003, film di cui ignoravo l’esistenza e che mi riprometto di trovare al più presto e magari recensire qui. Il film, come dicevo, per fortuna è stato vincitore del Marco Aurelio d’Oro all’ultimo Festival di Roma. Prodotto dalla casa di distribuzione Archibald, a quanto leggo è stato girato in sole tre settimane, con risicatissimo budget e una troupe minima. Difficile pensare che lo avremmo visto senza “premi” in curriculum.
È ambientato in una clinica belga, ispirata a un istituto realmente esistente. In questa clinica vengono assistiti gli aspiranti suicidi, i malati terminali, i depressi, e, qualora non venissero dissuasi, vengono accompagnati fino all’atto finale, con tanto di ultimo desiderio realizzato. Se da un lato offre spunti di riflessione interessanti, dall’altro un umorismo nero sottile e continuo aiuta la trama a mescolare i generi e confonderli in sorrisi e amarezze.
So che non troverò riscontro se racconto di averci visto dentro un The cube estroflesso, non il tentativo di uscire dal cubo, ma quello paradossale opposto, di finirci dentro.
La fotografia ha fatto venire in mente ai più «Il nastro bianco» di Michael Haneke. In alcuni momenti fa addirittura capolino il Von Trier de Il grande capo: il tema peraltro pare scandinavo, ma fa seguito una degenerazione degli eventi che appartiene forse più all’Europa occidentale.