“Due sono i modi di stare al mondo: da pellegrini o da viandanti. I primi hanno un traguardo sicuro e vanno, seppur con qualche comprensibile esitazione, dritti per il loro percorso. I viandanti invece perdono quasi subito la strada maestra, non hanno ben chiaro l’obiettivo del loro movimento, per curiosità o timore, imboccano altre vie, passano per itinerari e paesi lontani, spesso tornano sui propri passi. Forse, come disse Samuel Beckett a Charles Juliet, tutti dobbiamo trovare la strada sbagliata che ci conviene”. (Vado a vedere se di là è meglio, di Francesco M. Cattaluccio)
Vorrei credere che sia davvero così, che i lavoratori del mondo dell’arte (critici, curatori, galleristi e artisti) siano tutti viandanti, capaci di osare, di cambiare direzione e di non stancarsi mai di cercare nuove strade. La realtà ovviamente è che qualcuno lo è, qualcuno meno e ad ogni assegnazione di premio o riconoscimento le accuse e le critiche si sprecano, e i giochini ci sono e il denaro piace a tutti.
Quello che conta per me è non smettere di indicare con forza la strada giusta e nel frattempo godere delle occasioni in cui il lavoro è ben fatto a servizio dello spettatore. Una di queste, senza sorprendere, è l’esposizione organizzata dalla Fondazione Trussardi per celebrare i cento anni della griffe.
Dentro alla Stazione Leopolda di Firenze, uno spazio decisamente in stile Fondazione Trussardi, fino al 6 febbraio si potrà ammirare 8 ½: un’antologia delle opere volute e finanziate in questi anni di lavoro sul territorio milanese da parte dell’istituzione. Tredici artisti di fama internazionale, tredici suggestioni diverse, tredici motivi per cui varrebbe la pena pagare un biglietto e invece è pure gratuito.
Temo che raccontare le opere o parlare degli artisti sia riduttivo. Quello che è certo è che in un’Italia in cui non esistono spazi adeguati per l’arte contemporanea e i pochi esistenti subiscono la mancanza di fondi e l’equivalente mancanza di programmazione, quelli esposti a 8 ½ sono i nomi di chi dovrebbe essere conosciuto e compreso anche dalla folla che fa la fila per vedere una mostra su Dalì, e forse pecco di pessimismo, ma così non è.
Per questo motivo io voglio bene alla Fondazione Trussardi.
Perché Martin Creed ti accoglie all’entrata per dirti che c’è ancora speranza e Michael Elmgreen & Ingar Dragset ti raccontano che con quella speranza può arrivare al centro della Terra. Pawel Althamer, prendendosi poco sul serio, riesce a volare al di sopra della realtà rimettendo l’uomo al centro della sperimentazione del confronto col mondo circostante. Un mondo che è fantastico.
Darren Almond invece ci fa guardare dentro, i ricordi e le sensazioni rivissute sono ciò che rimane?
Paola Pivi sovverte ogni legge naturale, perché tutto è possibile, basta volerlo. E quando si raggiunge il risultato tutto sembra di colpo naturale, semplice (almeno se sei Paola Pivi, per noi magari è un po’ più complicato). Se John Bock è per stomaci resistenti, forse perché mostra la realtà sotto la lente di ingrandimento: così grottesca, cruda e violenta com’è; il tocco leggero di Tacita Dean invece distilla l’essenza dell’arte in qualcosa di semplice e pulito eppure misterioso.
Alle porte del mistico mondo di Fischli e Weiss, che usano i simboli per banalizzare la nostra quotidianità, Paul McCarthy troneggia con la sua scultura rosa di porci e bush, qui la realtà è mostrata senza riguardo nei suoi aspetti peggiori come fosse un marshmallow di malcostume. Urs Fisher ci porta invece nel mondo delle fiabe, un mondo che però ha vita mutabile in balia di un equilibrio imprevedibile. Anri Sala usa suono e immagini per raccontare un lamento musicale che è in realtà espressione interiore di qualcos’altro. Il nostra Cattelan ci graffia come suo solito li dove il nervo è scoperto, dove la maschera è discostata. Nulla vi dirò su Tino Sehgal, è la ciliegina sulla torta.
In poco più di un’ora di tempo puoi provare tutto questo: riflettere sulle cose e rifletterti in specchi deformanti, sognare e ridere, sentirti piccolo e grande insieme, nutrirti e sentire fitte allo stomaco. È la magia dell’arte, nella speranza che ci spinga sempre ad essere viandanti alla ricerca di nuove strade sbagliate.