Dopo il successo della mostra di Dennis Oppenheim, la galleria Fumagalli di Bergamo prosegue l’indagine sull’arte americana presentando dal 12 febbraio al 30 aprile 2011 Space of the body, una personale di Vito Acconci, tra i maggiori protagonisti della scena artistica internazionale che, sin dagli anni Sessanta, ha imposto le sue sperimentazioni nell’ambito della poesia, del video e della Body Art giungendo sino all’architettura e all’arte pubblica.
A pochi mesi di distanza dalla rassegna organizzata dal Castello di Rivoli, lo spazio di Bergamo propone una selezione di opere particolarmente significative realizzate tra il 1969 e il 1986 che affrontano la ricerca dell’artista nelle sue differenti sfaccettature.
Sono in mostra fotografie, video, disegni e tecniche miste, in gran parte mai esposti prima d’ora in una mostra pubblica italiana.
Si tratta, dunque, di un’occasione particolarmente significativa per riflettere sull’indagine di un artista che ha modificato profondamente i linguaggi dell’arte incentrando la propria ricerca sul rapporto diretto con il pubblico, tema che farà da filo conduttore della prossima Biennale di Venezia ILLUMInazioni curata da Bice Curiger.
Alla fine degli anni Sessanta, quando la scena artistica appariva dominata dalla Pop Art e dal Minimalismo che in maniera differente si concentravano sull’oggetto, Acconci ha cambiato radicalmente registro utilizzando la propria immagine come mezzo espressivo e punto di riferimento performativo contribuendo all’affermazione della Body Art, così come dell’arte processsuale e relazionale.
L’artista americano ha compiuto un’esauriente esplorazione del proprio corpo intendendolo come strumento sul quale intervenire in lavori di forte impatto emotivo e non privi d’inquietudine in grado di creare disagio fisico e psicologico. Nelle sue opere la macchina fotografica e la cinepresa sono stati utilizzati in chiave strumentale e antiestetica andando incontro ad una progressiva perdita del loro significato tradizionale per trasformarsi in strumento di pedinamento.
Non a caso la mostra prende le mosse da Circle, un lavoro fotografico del 1969 dove l’artista si riprende muovendosi intorno alla macchina da presa ribaltando il rapporto tradizionale con il mezzo. E’ dall’anno successivo, poi, un altro lavoro emblematico dell’esposizione come Step dove Acconci documenta fisicamente il proprio sforzo fisico. Le azioni che sono caratterizzate da stati di disagio, da uno sforzo inconsueto sino ad arrivare al dolore fisico, vengono riprese generalmente da una camera fissa, senza audio, o con la sola presenza della voce dell’artista.
Dopo “l’entrata in se stesso”, come egli ha definito le sue prime azioni, prese a “entrare negli altri” attuando lavori e performance dove Acconci era allo stesso tempo artista e spettatore. Anche questo procedimento è documentato in mostra come testimonia Approaches sempre del 1970 dove chi osserva diventa lo strumento di osservazione. In Following Piece, un altro lavoro proposto in quest’occasione, l’artista segue di nascosto in strada degli estranei origliando i loro discorsi invadendo il loro spazio di privacy.
Quelle di Acconci sono testimonianze profondamente innovative che anticipano di quasi quarant’anni il sistema dei media, l’intero sistema d’informazione (basti pensare a Wikileaks), così come le problematiche che coinvolgono l’universo di internet e gli stessi contenitori di video come YouTube. Come Samuel Beckett, Acconci, con amaro umorismo, ha spesso indossato una maschera drammatica per indagare la debolezza dell’uomo. Un viaggio, il suo, che ha sempre coinvolto ogni forma di sapere tra cui la scrittura (ha iniziato la sua carriera come poeta) che rappresenta un gesto automatico e ossessivo inteso come completamento delle immagini fotografiche.
Nelle sue realizzazioni, infatti, ciascun elemento viene utilizzato in maniera deviante sino a metterne in crisi i presupposti. Con lo stesso atteggiamento demistificante, ha affrontato lo spazio urbano facendo della galleria il luogo dell’azione creando una tautologia tra il contenitore e l’opera: mobili e sedie venivano spostati da una parte all’altra per esprimere il loro totale nonsenso in azioni che non aveva altro significato se non il loro stesso movimento. In VD Lives/TV Must Die del 1978, esposto in mostra, le colonne della galleria sono diventate fionde con grandi elastici e proiettili di cannone puntati sui monitor e sulla finestra dello spazio espositivo. Non manca, infine, un esplicito riferimento all’architettura con War Memorial del 1986 che anticipa la sua ampia attività nell’ambito della Public Art che ha condotto alla creazione dello Studio Acconci. A conclusione della rassegna una serie di video sperimentali degli anni Settanta come Waterways: 4 saliva studies e Centers del 1971 a cui si aggiungono Undertone e Theme song del 1973. Sono lavori spesso di forte carica provocatoria dove il corpo diviene mezzo di contatto con l’altro e con lo spazio.
India 24 Marzo 2017 il 23:41
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