Una delle arti che, a mio parere, riesce a mantenere la sua produttività pur situandosi nell’universo della mercificazione globale è il cinema. Seppur con fasi alterne, ogni anno riusciamo a fare esperienza di lungometraggi di garnde valore. Black Swan (in italiano Il cigno nero), dell’ormai noto regista americano Darren Aronofsky, è l’ennesimo capolavoro che il cinema ci offre.
Non mi dilungo sulla tecnica che è argomento che non mi compete e che appare abbastanza evidente sin da un primo sguardo. Fotografia eccellente, riprese peculiari che esaltano la tensione dei personaggi, ottimi interpreti, scenografie suggestive. Lui, Aronofsky, abbiamo imparato a conoscerlo con film di grande spessore quali il claustrofobico π – Il teorema del delirio, o l’allucinato Requiem for a Dream, o ancora con il poetico e crudo personaggio, interpretato da Mickey Rourke in The wrestler. Black Swan non è che l’ennesima prova di una bravura fuori dal comune, della ricerca di un nuovo linguaggio a cui ogni volta si aggiunge un tassello in più. Ancora una volta il regista si cimenta con la tematica del percorso evolutivo, fisico e psichico, dei sui personaggi. Maximillian Cohen in π era un matematico geniale che cercava la formula all’origine della vita, Randy “The Ram” Robinson era un lottatore che sfidava i limiti del suo corpo pur di avvalorare la sua esperienza e, infine, la dolce Nina/Portam è una ballerina attenta e disciplinata che vuole raggiungere l’apice della carriera. Tutti e tre questi personaggi compiono un viaggio (non è forse questa la semiotica di ogni film?) che li porta ad esplorare la propria psiche, i propri limiti, e mette in luce un fattore determinante ossia che in ogni ambito dell’esperienza umana il percorso interiore accompagna e determina il conseguimento di un traguardo.
Il film in questione ha anche il merito di far conoscere ai più l’essenza di una disciplina come la danza classica, una sinergia di abilità tecnica, anima e grazia, che ha alle sue spalle una lunga storia ma che forse appare in qualche modo svalutata dalla contemporaneità. La compagnia di cui Nina fa parte decide di mettere in scena Il lago dei cigni, un classico musicato da Pëtr Il’ič Čajkovskij, in cui sono in gioco temi focali quali quello del doppio, del tradimento amoroso, del sacrificio umano. Un doppio che il regista interpreta in chiave intimista come divisione tra bene e male, se così banalmente vogliamo liquidarli, aspetti che convivono in ognuno di noi a cui spesso si attribuisce erroneamente una separazione troppo netta. Ma questa è anche la storia di una giovanissima che scopre il disincanto del mondo, costretta com’è ad assumere essa stessa il ruolo del cigno nero e che, come affermava Dostoevskij, viene salvata dalla bellezza dell’arte in cui si cimenta (liberi di interpretarla diversamente).
Il contrasto cigno bianco/cigno nero è ripreso anche nella forma: a scene di assoluta raffinatezza, sottolineate da un’eccezionale fotografia, si oppongono scene di estrema crudezza in qualche caso anche un po’ splatter! Il confine tra verosimile e realtà psicologica è labile ed è proprio questo uno degli elementi che da grande forza al lungometraggio esaltandone il potenziale perturbante, proprio della dimensione filmica e di un certo tipo di cinema. Aronofsky scava nella psiche dei suoi personaggi, sottolineandone anche le minime sfaccettature, entra nel quotidiano, accompagna i movimenti enfatizzandoli con le riprese e poi sfocia nel puro lirismo per tornare infine sul personaggio.
Un viaggio interiore di Lynchiana memoria che però parte da storie di ordinaria poeticità e per questo si dimostra ulteriormente nuovo. Un’altra medaglia sul petto di un regista che a mio parere si è già guadagnato un posto nell’olimpo dei grandi!