Luca Rossi: Recentemente ho letto un tuo articolo relativo alla situazione del sistema italiano dell’arte contemporanea. Parlo di sistema per identificare: istituzioni, artisti, riviste, nuove riviste, gallerie giovani international, gallerie italiane, gallerie che ci provano, gallerie storiche, musei, fondazioni, artisti che inviano application, artisti che girano per mercatini alla ricerca di libri e foto usate, opening con apertitivi e relazioni tra l’amichevole e l’interessato, associazioni no profit, spazi no profit, tanti spazi, tante opere, tanti progetti, assegnazione di studi d’artista, scuole d’arte, istituti d’arte, accademie con vecchi programmi, programmi di formazione, collegamenti tra curatori italiani e curatori esteri, acquisizioni di opere che sono passate in biennale, premi, premi ogni giorno, residenze all’estero, residenza in italia, workshop e mostre collettive, assenza di un pubblico vero, critici poco critici ma molto artisti, fanzine giovanilistiche come Mousse e Kaleidoscope che sono più che altro progetti artistici più attenti al contenitore che al contenuto, Flash Art, Exibart, i commenti di Exibart, collegamenti tra scuole e istituzioni.
Tutto questo pensando che il giovane operatore di oggi sarà l’operatore professionista di domani. Tutto questo avendo ben chiaro che l’italia ha un ruolo marginale rispetto al sistema internazionale, ma che può essere considerata una caso di studio unico al mondo per via di alcune congiunture e specificità culturali, politiche e sociali. “Toccare il fondo” potrebbe e dovrebbe essere propulsivo per la definizione di giovane artista che ci piace di più. Non godere di economie forti rispetto Inghilterra, Germania, Svizzera o Stati Uniti può diventare un elemento propulsivo sul piano del linguaggio. Esattamente come potrebbe essere utile non avere istituzioni troppo strutturate e rigide, sempre rispetto la definizione che ci piace di più di arte contemporanea. In fondo quest’ Italia costringe ad una messa in discussione quotidiana, e questo può essere utile per tutti; anzi forse dovrebbe essere una principio cardine del contemporaneo. Io credo che in questa fase storica l’Italia sia, nel bene e nel male, estremamente contemporanea. Cosa ne pensi?Micol Di Veroli: E’ forse questo un periodo caratterizzato da una forte contemporaneità per l’Italia. Voglio dire che molti operatori ed artisti facenti parte del sistema si sono resi conto che esso in realtà non esiste. L’operazione totalitaria di Vittorio Sgarbi alla prossima Biennale di Venezia è la riprova del fatto che questa assenza è drammaticamente presente. L’idea del tutti in Biennale è un modo come un altro per non scontentare nessuno, gettando però gli artisti all’interno di un mare delle possibilità ove non esiste possibilità alcuna. Il mio sfogo apparso su Globartmag è un modo come un altro per fare il punto della situazione, stilare una lista della spesa di cose inutili che sarebbe meglio cestinare. Riviste finto-giovani ed esterofile che lodano ricerche inconcludenti, premi già decisi, critici non critici, Magazine che pubblicizzano senza recensire e quanto altro sono lo specchio di un “qui ed ora” che potrebbe rappresentare la nostra condizione contemporanea se solo riuscissimo a guardarlo dall’esterno ed a costruire una ricerca creativa attorno ad esso. Guardando molti commenti su siti d’arte italiani mi sono accorta di una situazione da “tutti contro tutti”, difficilmente riscontrabile sulle piattaforme straniere. All’estero si propone, qui si dileggia il prossimo, segno evidente dell’ impopolarità di certe proposte artistiche. L’arte impopolare è la nostra condizione contemporanea, questa creatività foraggiata da istituzioni blindate e dalla mancanza di opportunità per chi rimane fuori. Eppure si organizzano master per curatori, le accademie artistiche pubbliche e private cercano nuovi proseliti. Si cerca di dare l’idea di un futuro che invece è una chimera, dico che non esistono piattaforme per la giovane critica come per la giovane arte. SI cerca inoltre di dare corpo ad un sistema che poggia unicamente sulla sua definizione. Il sistema dell’arte inesistente ha una sua rete di sedi espositive istituzionali e non, ha la sua piattaforma critica, ha i suoi artisti ed ha il suo magazine di regime. Tutto si autoalimenta senza pestare i piedi a nessuno ma in realtà questa unità è formata da piccoli sottoinsiemi che si screditano a vicenda. La cosa buffa è che gli artisti, i curatori e gli altri addetti ai lavori i quali riescono ad accedere all’interno del sistema-inesistente si atteggiano a navigate rockstar e non si accorgono che il loro operato è seguito solamente da altri artisti e curatori che vorrebbero esser al loro posto. Il grande pubblico è il grande assente ed all’interno del pubblico risiede anche il collezionismo. C’è però qualcosa di positivo in tutto ciò. C’è la nascita di una nuova generazione di artisti, curatori e quanto altro che per troppa noia o per spirito di contraddizione non ha intenzione di allinearsi a questi meccanismi. Queste mine vaganti dell’arte contemporanea italiana rappresenteranno un vero cambiamento. Ben venga quindi questa fase storica indecisa ed inconcludente, sarà la culla per nuove sperimentazioni.
Luca Rossi: In Italia il pubblico dell’arte contemporanea è fatto in grandissima parte da addetti ai lavori e artisti. E’ come se in una democrazia il popolo fosse formato dagli stessi parlamentari. Pensaci. Ogni nuova proposta, da parte di un cittadino-parlamentare, viene vista in termini competitivi e concorrenziali e quindi osteggiata. Il controllo e l’interesse sul parlamento è attuato solo da altri membri del parlamento: sintomatico che per l’assegnazione degli studi della Bevilacqua La Masa abbiano protestato solo gli artisti scartati. Nel momento in cui un Luca Rossi qualsiasi propone un “programma” diverso e apparentemente critico verso la parte dominante del parlamento (il Partito Sistema) abbiamo una parte del parlamento che sostiene Rossi (quella avversa al Partito Sistema). Quando Rossi viene riconosciuto parzialmente (Cavallucci) la parte del parlamento che lo sosteneva (il Partito Outsider) lo vede adesso come un concorrente, un competitor, mentre la parte che veniva criticata (il Partito Sistema) continua a osteggiarlo. Risultato: tutti lo osteggiano. E la cosa è assolutamente positiva perchè lavora a favore dell’autenticità: rimangono al confronto solo le persone che pensano i contenuti al di fuori di stupide strategie.
La presenza di un’opinione pubblica alfabetizzata, interessata ed appassionata porterebbe maggiore meritocrazia e più denaro. Quì non si tratta di capire le mostre di arti visive, ma di formare un coscienza e una sensibilità che poi si riflettono nell’archietettura, nella politica, nel quotidiano, nella cultura e nella società. Ecco quello che sembra avvenire ora: mancanza di opinione pubblica (porta:posta in gioco bassa (porta:precarietà economica e comportamentale, mancanza di approfondimento critico, no meritocrazia ma scelte amicali (porta: conformismo e omologazione per entrare nel sistema che conta-che però in realtà non conta visti i risultati (porta: mortificazione e disincentivo della novità). Cosa ne pensi?
MDV: L’annosa questione della meritocrazia è senz’altro una delle spine nel fianco del nostro belpaese, mi riferisco a “cose” artistiche come ad ambienti politici e lavorativi. Questo continuo rotear di amicizie e favori potrebbe anche andar bene se il suo funzionamento portasse a benefici reali. Mi spiego meglio, in qualche modo bisogna pur fare sistema, creare un gruppo di giovani artisti e spingerli oltre i nostri confini. Il problema è che chi dovrebbe scegliere i selezionatori è amico di amici, chi seleziona è già amico di amici, chi espone è amico di amici. In questo si perde la connessione con la realtà e si finisce per immettere all’interno di una scena dei nomi privi di concetti e di estetiche, i quali sono costretti a rubare idee già viste e riviste, o peggio ancora copiare opere dall’estero. E’ il vivacchiare nazionalpopolare, una pratica che permette di far mostre nei musei e nelle gallerie, il tutto sempre all’interno delll’italico suolo ed a patto che il direttore o il curatore di turno sia un amico da cui poter ricevere e ricambiare favori. Basta metter la testa fuori di casa per accorgersi che concorsi a premi, nuove acquisizioni museali e quanto altro sono guidate da uno scambio reciproco. Prendete il nome di un’artista, mettetelo su Google e subito vi apparirà chiaro il reticolo dei suoi rapporti, capirete quindi con chi ha fatto cosa e perché. Tutto ciò funziona fino a quando restiamo nel nostro quartiere ma è evidente che nell’ultimo ventennio questa pratica ha causato pesanti controindicazioni. Il collezionismo ad esempio non riesce più a comprendere gli investimenti reali, ci sono artisti che vanno alla Biennale di Venezia ma poi tornano a partecipare ai soliti concorsi, ad esporre nelle solite gallerie senza che nessuna sede istituzionale all’estero proponga il loro lavoro. Esistono giovani promesse che tali rimangono fino al compimento del cinquantesimo anno d’età, barcamenandosi fino a quando il loro curatore di fiducia è in auge, fino a quando il loro gallerista “conta”, dopo nessuno si ricorda di loro, come è successo ai giovani della “rivoluzione digitale” italiana dalla metà degli anni ’90 in poi. Chi all’epoca ha acquistato le opere di quelle giovani promesse si ritrova oggi con un bel pugno di mosche in mano. Colpa degli artisti? no colpa del sistema-inesistente che ha saputo solo bruciarli senza aiutarli al meglio. Altra grave controindicazione è rappresentata dalla perdita di quel pubblico di cui parlavi poc’anzi. In questo periodo bisogna metter in mostra opere che sembrano residui di un cantiere edile, questa è l’estetica di regime. Il tutto deve esser condito da un supporto critico infarcito di disonestà intellettuale che deve proporre “alti” concetti filosofici non comprensibili dalla massa, altrimenti potrebbe esser messa in evidenza la carenza di creatività dilagante. L’arte deve essere per pochi e così stanno andando le cose, il pubblico non capisce e diserta. Si ha paura di fare pittura, chi era pittore ora crea installazioni, la video arte andava di gran moda ma oggi è forse meglio ripiegare su opere site-specific in larga scala. Il pubblico però non vuole vedere questo, non si tratta di proporre il facile ma di proporre l’accessibile. Gilbert & George sono accessibili, Marina Abramovic è accessibile, Gerard Richter è accessibile, nessuno però li reputa artisti facili. Preoccupiamoci quindi di (perdonatemi la parola) educare il pubblico all’accessibile e quest’ultimo risponderà con la sua presenza, presenza che diverrà in seguito collezionismo. Herb e Dorothy Vogel, potenti collezionisti newyorchesi, hanno iniziato dal nulla e con pochissimi mezzi economici. Hanno però acquisito ciò che a loro piaceva, ciò che reputavano accessibile. Una putrella di ferro gettata sul suolo di una galleria non è accessibile e non rappresenta l’identità di un’artista. Parlando del pubblico in relazione al fenomeno Luca Rossi è evidente che quest’ultimo propone l’accessibile ma si tratta di un accessibile articolato e dotato di contenuti, una reazione a catena che parte dall’interno del sistema per apportare un cambiamento. Ovviamente non potrà mai essere apprezzato dall’artista che mira a scalzare l’altro artista solo per attuare una semplice sostituzione in termini di nome e cognome. Difficile cercare unità all’interno di un popolo che non ragiona in termini meritocratici e che non vede merito nel suo prossimo. Le cose però possono e devono cambiare, non si tratta di una vana speranza da banali idealisti ma di un processo che avverrà. Che lo si voglia o meno.