Mi ha sempre affascinata il meccanismo che consente ad un’opera di arrivare allo spettatore: l’artista nel momento in cui mette in mostra un proprio lavoro deve accettare che ne conseguirà una lettura sul cui esito non può esercitare reale controllo.In quale misura è lecito lasciare libertà a chi guarda e in quale invece è necessario fornire degli strumenti affinché il proprio messaggio arrivi il più chiaro possibile, questo dipende molto dal singolo.
Simon Fujiwara ha in qualche modo ovviato a questa problematica creano un particolare mondo immaginifico in cui lo spettatore viene inserito e redarguito a proposito del soggetto. L’hype che si è creato intorno al suo nome, i premi vinti nell’ultimo anno, la sua partecipazione alla Biennale, la sua giovane età e lo scandalo che sembrerebbe produrre il suo operato: erano questi gli elementi che mi hanno incuriosita ad andare da Giò Marconi per vedere Phallusies di Simon Fujiwara.
L’installazione, già presentata durante Manifesta 8, è una sorta di riproduzione in stile Disneyland degli ambienti posticci che si creano attorno ad uno scavo archeologico improvvisato. I tavoli di studio, l’angolo dello svago giocando a carte, la sabbia, le taniche, le fotografie sul muro. Un set costruito nei minimi dettagli di un luogo mai esistito, ma di cui noi possiamo fare esperienza.
Lo scavo in questione non è uno qualsiasi, leggenda narra che durante lo scavo per le fondamenta di un museo nel deserto in Arabia venne trovato un antico mausoleo raffigurante un enorme fallo. La vicenda fu prontamente insabbiata alimentando così i racconti mitici a proposito della scultura. Fujiwara ricostruisce i ricordi di chi lavorò in quel cantiere e li monta come fosse un documentario di History Channel. Il racconto è però intervallato da riprese in cui gli stessi chiamati a testimoniare costruiscono un modello in scala reale dell’enorme fallo, scultura presente a sua volta in mostra.
Il gioco è chiaro: io artista creo un mondo di finzione e non nascondo che lo sia, anzi lo smaschero con le mie stesse mani; tu, spettatore, spinto da voyeurismo e divertimento stai al gioco. Simon Fujiwara scandalizza raccontando di un enorme fallo che ha imbarazzato il mondo arabo oppure è il solito atteggiamento politically correct che fa gridare allo scandalo? Sinceramente non mi interessa molto questo aspetto dell’opera, quello che affascina del lavoro di Fujiwara è piuttosto lo smascherare meccanismi sociali di influenza sulle masse, il gioco dei poteri al di sopra delle nostre teste.
La sua fissazione per il sesso come medium privilegiato del suo racconto potrebbe essere semplicemente un acquisizione completa di quelli che sono gli strumenti di comunicazione del nostro tempo: il corpo e la sessualità, appunto. Che sia il marketing la vera forma d’arte degli anni duemila?