Su Globartmag si è parlato spesso di Project Room, soprattutto auspicando da parte di realtà istituzionali, come i musei d’arte moderna e contemporanea, una scoperta e un buon utilizzo di uno strumento utile alla promozione della giovane arte e alla sperimentazione. Per quello che poco che ho incontrato nel mio peregrinare nella città di Milano esistono diverse gallerie d’arte che propongono project room, ma difficilmente mi hanno colpito i contenuti espositivi. Non è facile gestire un progetto per uno spazio del genere, basti pensare che pone ai galleristi tutte le problematiche di una mostra, anche dal punto di vista economico, ma con spazi ristretti e poco interesse mediatico attorno al nome proposto. Inoltre spesso può esistere un rapporto conflittuale con la mostra vera e propria proposta in galleria.
Unosunove è una galleria romana che ha una project room a Milano da meno di un anno, questione di strategia? Certamente, ma non solo, perché la proposta fatta in via Broletto 26 è variegata e intrigante con nomi di artisti internazionali davvero giovani e nuovi sul mercato. Una sfida non facile su una scena come quella milanese in cui i soliti vecchi e potenti nomi fanno da padroni e le realtà piccole nascono e muoiono con velocità. Fino al 11 giugno si può visitare la mostra di Marysia Gacek, artista polacca nata nel 1986. Incuriosita sono andata a vedere cosa avesse prodotto questa venticinquenne nomade, vive a New York dove ha studiato, e devo ammettere che non solo mi ha trasmesso quella sensazione di freschezza che ci si aspetta dalla giovinezza, e spesso non si riceve, ma è riuscita senza dubbio a ben incarnare il concetto di site-specific senza svilire le singole opere che mantengono intatta una loro autonomia.
Indubbiamente si possono trovare larghi margini di evoluzione nel lavoro di qualcuno così giovane, ma credo sia uno degli aspetti affascinanti della ricerca li dove si evidenziano i presupposti non scontati necessari per creare una propria visione del mondo in forma d’arte. Marysia racconta storie del quotidiano attingendo dal suo universo personale e dall’osservazione di ciò che la circonda, gioca con i simboli in maniera semplice e immediata donando così alle sue opere quella freschezza cui accennavo prima.
Lo spazio di Unosunove è su due piani, scavati nella corte interna di un palazzo d’epoca dietro al Duomo. Al primo piano troviamo una riflessione sull’ossessione per il corpo che coinvolge tutti noi e sullo potere dei media. Mentre nello schermo si susseguono ragazze intente a levigare i fianchi grazie alla pedana di una famosa consolle, viene da ridere: così goffe a fare movimenti convulsi nella loro stanzetta. Accanto, appoggiato sul muro un hula-hop, strumento che utilizzerebbero quelle ragazze se invece che di fronte alla tv avessero deciso di fare davvero l’esercizio di ginnastica. Sul muro un poster dall’estetica pubblicitaria mostra due mani che plasmano della terracotta. In quest’insieme così chiaro è come se l’artista riuscisse a rimettere al suo posto una questione la cui importanza dovrebbe essere relativa, ma che così non è.
Ma è al piano di sotto, a mio avviso, la vera sorpresa. Non so se sia un effetto cercato o semplicemente determinato dalla situazione, ma le sfere i gesso rotte nel sotterraneo, forse a causa dell’umidità tipica da cantina, emanano un odore particolare. Come fossi entrata alle terme la sensazione si amplifica vedendo al muro l’opera Mountain Fresh (Dawn): su una fotografia di un bosco è appeso come fosse un asciugamano un telo di plastica sfumato. Il coinvolgimento dei sensi è totale e piacevole, a dimostrazione della forza dell’arte di farti stare semplicemente bene, come dopo un pomeriggio alle terme.