All’età di settantasei anni Renato Barilli non è ancora stanco di mettere steccati intorno all’arte. Da giovane si spinse in grosse indagini decennali, come le mostre Anniottanta e Anninovanta, e poi optò per le più snelle biennali inaugurate con Officina Italia nel lontano 1997, cui seguirono Officina Europa, 1999, Officina America, 2002 e Officina Asia nel 2004. Tutte le manifestazioni erano contemporaneamente dimostrazioni d’affetta verso l’arte e verso la propria regione, l’Emilia-Romagna, da sempre parterre di ogni evento e soprattutto sostenitrice economica fondamentale.
Dopo più di dieci anni ritorna ad occuparsi di Italia con Officina Italia 2 – Nuova creatività italiana ed è chiaro fin da subito che l’età non ha domato il suo spirito battagliero. Pochi giorni fa, inaugurando la conferenza stampa, ha manifestato ancora una volta (v. L’arte non è cosa nostra – Pierluigi Panza – 28/05/11 – Corriere della Sera) il suo disprezzo verso l’operato sgarbiano a Venezia elevando la propria mostra a legittimo padiglione nazionale e e di sicuro interesse rispetto quel baraccone che ci accoglierà il laguna.
Non è nel mio interesse approfondire qui il dibattito sul Padiglione Italia, ne tanto meno aprirne altri, fatemi dire però che questo proliferare di iniziative legate ai giovani artisti italiani è un segnale positivo di interesse verso una scena prolifica e viva come l’arte degli italiani, ma è un terreno scosceso in cui facilmente si cade in approssimazioni o ci si fa prendere da facili entusiasmi. Inoltre diffido sempre di chi crede di avere la verità in tasca. Per questo motivo spero di poter visitare la mostra entro il 3 luglio, data di chiusura, per poter analizzare più a fondo la proposta al pubblico di questa Officina Italia 2.
Dall’appassionato racconto di Barilli emergono comunque alcuni elementi degni di nota a prescindere da quello che poi sarà visibile in mostra, specificità che riescono a unire i trentaquattro artisti presenti, nonostante le differenze di stili e poetiche. Come ricorda Guido Bartorelli nel suo testo critico scritto per il catalogo, il filosofo americano Arthur Danto ha teorizzato la fine della storia dell’arte e l’inizio, a partire dagli anni Sessanta, di una fase post-storica nella quale l’arte, ormai priva di riferimenti e diventata un tutt’uno con la vita, sublima nella ricerca filosofica e lascia gli artisti disorientati barcamenarsi in un territorio dove tutto è possibile. Bartorelli dalla sua sostiene che lo spazio d’azione invece ancora esiste, non per nulla ha partecipato al progetto Officina, cerchiamo dunque di evidenziare questi tratti distintivi, queste tendenze che guidano la ricerca oggi e legittimano quindi una futura lettura storica.
Barilli la chiama scultura leggera: artisti che si muovono tra la seconda e la terza dimensione inseguendo un punto di equilibrio tra due estremi, tra quadro e statua di marmo. Un invadere lo spazio in maniera lieve, con strutture impalpabili, pericolanti, costruite con elementi di recupero a rischio di sembrare spazzatura (Alex Bellan, Jacopo Candotti, Nicola Gobbetto, Paolo Gonzato, Antonio Guiotto e Laura Matei), in altri casi l’invasione è più giocosa e intelligente, sussurata, elegante o pacchiana che sia (Davide Bertocchi, Roberto De Pol, Anna Galtarossa, Eloise Ghioni, Chris Gilmour, Alice Guareschi, Giorgio Guidi, Federico Maddalozzo e Filippo Pirini).
Sempre in questo limbo dimensionale rientrano leggerezze tutte femminee come i ricami di carta di Elisabetta Di Maggio o quelli di vetro e muro di Margherita Moscardini, mentre Meris Angioletti rappresenta l’unione tra la Biennale della Curiger e questo padiglione illegittimo. Le tele di Matteo Montani e le fotografie Giovanni Ozzola sono anch’esse quasi effimere; leggerezza, dicevamo, intesa anche come divertimento, come colore che sdammatizza o imbelletta (Diego Soldà, T-yong Chung) e anche come decorazione, la quale ritorna a tutto diritto nell’arte in barba ad Adolf Loos che a inizio Novecento indicò proprio nell’ornamento il delitto della storia da cui bisogna liberarsi.
Oggi invece pare abbiamo bisogno di un po’ di sana superficialità e sfrontatezza così si mettono in mostra opere puramente decorative, al limite del kitsch (Elena Brazzale, Kensuke Koike, Lisa Lazzaretti, Ignazio Mazzeo), auspicando quasi una rinascita del graffitismo in forma naif (Alvise Bittente, Francesco Spampinato, To/Let). Ben venga la commistione di campi per un Marco Papa designer ecco invece Laurina Paperina svilita (a mio avviso) da Barilli come pronta alla pubblicità. I tre esclusi, non me ne vogliano, inseriteli voi all’interno del ragionamento dove meglio credete, a me sfuggono (Chiara Pergola, Alberto Tadiello e Giogia Valmorri).
In fondo l’intento di Renato Barilli e soci è assolutamente comprensibile e per certi versi è fondamentale non rimandare la critica che ad aspettar l’esito della storia si diventa vecchi. Ad ognuno di noi il compito di riflettere sugli spunti dati dalla loro analisi, nel frattempo lasciamo che l’arte ci alleggerisca la vita.