Come sempre il bivio è uno solo: hai soldi-fortuna-possibilità per stare a Venezia almeno una decina di giorni oppure no? Ovviamente io no e quindi ecco il mio frenetico racconto di una tre giorni faticossissima, ovvero l’esperienza Biennale come viene vissuta dalla maggior parte dei comuni mortali che si trascineranno in laguna nei prossimi mesi. Per la precisione ho transitato sulle acque per due giornate e mezza e ancora ho la sensazione sgradevole di essere sul vaporetto che sobbalza tra le onde e negli occhi le immagini si sovrappongono e le domande si fanno incessanti.
Come ogni brava turista aderente ai cliché ho fatto tante foto, ma solo a quello che volevo ricordare, di conseguenza il mio racconto di viaggio sarà più simile al diario segreto di una sedicenne piuttosto che un racconto giornalistico serio ed equilibrato, suvvia di quelli ne trovate a bizzeffe. Mi lascerò tuttavia la possibilità di utilizzare foto non mie li dove sarà necessario.
Venerdì 3 giugno a Milano il cielo era terso mentre ci apprestavamo a prendere il Frecciabianca 9715 delle 11.35 destinazione Venezia S. Lucia. Non avendo il privilegio dell’accredito stampa avevo deciso di dedicare il pomeriggio ad eventi collaterali, così dopo aver preso possesso della camera d’hotel ci dirigemmo verso la Nuova Scuola Grande di S. Maria della Misericordia.
Ora, se una cosa l’ho capita girando per Venezia è che non solo Google Map non funziona (giuro), ma anche le cartine fisiche sono poco affidabili: varchi strettissimi tra due case indicati come vie normali, nomi inesistenti, distanze tra un punto e l’altro assolutamente lontane dalla realtà. Ho capito in fretta che l’unico modo per muoversi in città fosse decidere una direzione e proseguire coerentemente, prima o poi si arriverà da qualche parte.
Stavamo appunto dirigendoci verso la chiesa, guardando la cartina mi sembrava ad una decina di minuti dall’hotel, infatti ci arrivammo in un minuto scarso. Ancora non ho capito cosa fosse la Nuova Scuola Grande, ma dentro la Chiesa di S. Maria della Misericordia era allestita la mostra di Jan Fabre (Anversa, 1958) intitolata Pietas. Nella chiesa spogliata dai suoi addobbi e in quello stato di decadenza tipico veneziano denso di fascino è stata costruita una grossa pedana d’orata su cui stanno in bella vista cinque sculture di marmo bianco puro. Sopra si può salire solo con delle ciabatte di feltro ai piedi, sono scomodissime perché non scivolano sul pavimento, ma scivolano via dal piedi benissimo se provi ad alzarli per camminare normalmente. Così, mentre mi trascinavo poco compostamente ammirando cervelli giganti trafitti da chiodi o da alberi della vita, arrivo davanti all’opera dello scandalo: Merciful dream (Pietà V) ovvero la famosa Pietà di Michelangelo nella quale però il Cristo è l’artista stesso vestito in giacca e cravatta e la Madonna ha per volto un teschio. E chi trovo li davanti? ABO, Achille Bonito Oliva in persona! Così tendo l’orecchio per sentire il suo parere che suonava più o meno così: “Troppe cose”. E mi ha lasciata li ha riflettere sul suo giudizio, troppe cose…forse è vero.
Ogni elemento è simbolico, la madre, la morte, la sofferenza, la risurrezione, la metamorfosi diventano teschi, insetti, cervelli, chiodi, tartarughe. E poi ci sono anche dieci uova appese alle colonne, sono Cocoon realizzati con i gusci dello scarabeo gioiello, animale sacro. Il lavoro di Fabre è stato accusato di blasfemia, ma io sinceramente non ne ho trovata, piuttosto ciò che inscena è un’allegoria della vita: forse la nostra, da spettatori, è meno sofferta, l’artista invece sembra segnato da un destino di solitudine nel suo rincorrere la verità, il pensiero, dunque il cervello. Certamente un’opera ridondante e anacronistica, ma è tutto voluto. Io sono rimasta affascinata dal questa decadente perfezione, nel bianco del marmo tutto è liscio e invitante, anche la morte.
Usciti dalla chiesa ci incamminammo verso il centro seguendo la folla evidentemente ignara o insensibile dell’evento che si consuma in questi giorni di inaugurazioni folli. (Continua…)
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