(Dove eravamo rimasti…) Siamo arrivati alla fine ed sarebbe tempo di considerazioni generali, ma prima un ultimo consiglio: una piccola mostra che è un gioiellino, ma lo si capisce dopo averla visitata. Un esempio tra l’altro di qualcosa fatto bene da ogni punto di vista: contenuti, campagna di comunicazione e allestimento. Magari non spicca, e mentre osservi le opere, abituati ormai all’opulenza di cotanta arte in tutta Venezia, può sembrare piccolina, un po’ mesta, invece ha una sua forza, lenta e decisa. Parlo di The future of a promise mostra curata da Lina Lazaar che raccoglie ai Magazzini del Sale l’arte contemporanea del mondo arabo.
All’entrata ci diedero un piccolo libretto (quello che per me vuol dire coccolare il visitatore) contenente tutte le opere e brevi spiegazioni per ognuna. L’introduzione è semplice: la promessa è un intento, una volontà di cambiamento. Come tutti sappiamo nell’ultimo anni i paesi arabi hanno visto nascere quella che viene chiamata la Primavera araba: un’onda di consapevolezza e ribellione politica che ancora non si è fermata, nonostante i nostri telegiornali non ne parlino più e soprattutto nonostante la violenta repressione che i regimi perpetuano verso la popolazione ormai stanca.
Qui in Italia, che avremmo tutti i buoni motivi per arrabbiarci un po’ anche noi, stiamo a guardare e, come spesso accade, si trasformano temi del genere in chiacchiera da ombrellone (o dal talk show politico) promuovendo la classica fiera del qualunquismo o delle visioni distorte. The future of a promise permette una visione dall’interno. Anche se molto probabilmente molti degli artisti presenti conoscono bene la nostra cultura, ed effettivamente in alcune opere traspare un certo “occidentalismo”, si è rivelata una mostra diretta e sincera. Nel piccolo catalogo è scritto:”Una promessa apre a orizzonti di future possibilità, che siano estetiche, politiche, storiche, sociali o anche critiche” ed è evidente che oggi ad un artista arabo difficilmente potrebbe interessare un diverso scenario.
All’entrata, alzando gli occhi, troviamo Suspended Together di Manal Al-Dowayan: uno stormo di colombe sospese in un volo impossibile, poiché legate ai fili. Sopra ogni uccello è rappresentato il particolare documento che devono avere le donne araba per poter viaggiare, ovviamente solo se accompagnate da un uomo. Taysir Batniji propone venti piccole cornici intitolate GH0809. Da lontano sembrano i classici annunci di case in vendita, ma guardando bene si nota che non siamo di fronte a villette unifamiliari ben tenute, bensì ai relitti delle case bombardate dall’esercito israeliano a Gaza. Una provocazione che non nasconde chiare accuse politiche, ma che tocca una tematica ben più ampia.
In fondo alla sala invece, appese al muro a mezz’asta, si trovano le 22 bandiere degli stati arabi. Sotto due di esse sono appoggiate due scopa a mo’ di aste reggibandiera, indicano il vessillo tunisino e quello egiziano. L’opera, non a caso, si chiama The Lost Spring di Mounir Fatmi.
Ci resta poco spazio per le conclusioni, ma in fondo la Biennale resta un appuntamento importante e, fortunatamente, delle polemiche e dei teatrini ci dimenticheremo e resterà quello che conta: una quantità di arte che se ne fa il pieno per mesi; l’importante, per me, è prendersi poi il tempo per rielaborare, ricordare e riflettere così da estrarne il succo. E così Buona Biennale a tutti, a chi ci è già stato e a chi ci andrà.