Non c’è archivio, né accumulo di tempo in Kensuke Koike (dal 3 settembre al 29 ottobre 2011) ma organico fluire delle forme che trasmigrano da un’immagine all’altra. Non siamo solo dinanzi a quel trovato o ritrovato che svela il processo cognitivo di ricollocazione del senso e dello sguardo, ma dinanzi alla creazione di altro, nato per gemmazione e che risponde ad esigenze di vita autonoma. Non vi è solo un recupero di riproduzioni obsolete per una inedita semiologia dell’immagine, ma questa viene adoperata di nuovo con lo scopo di costruire un organismo differente, perennemente in connessione. Come nel filmato rielaborato o nella composizione-manifesto, l’opera perde la sua funzionalità, la referenzialità con il reale, rivelando così non solo il suo doppio ma una miriade di vettori che accrescono le sue potenzialità immaginative.
La discussione non verte più sul binomio verità / finzione ma sull’analisi del processo di posizionamento continuo di senso, quale condizione ontologica di fronte al reale e alla sua rappresentazione. L‘incongruità apparente quindi è un processo che si compie per accostamento, per illustrare un nuovo testo e rendere visibile la dimensione dialogica che intercorre fra il significato originario e sconosciute concatenazioni narrative. In questo procedere Koike è sempre sovversivo, perchè scardina e smaschera la logicità e l’ordine di lettura per rigenerare la retina e la sua dinamicità propulsiva, seguendo una trama che conduce quasi ad una mise en abyme. Entrare nel suo mondo è come colpire uno specchio, spezzare l’insieme, produrre orientamenti, parziali, riflessioni multiple, sfaccettature ossimoriche. Un’alterazione da ricomporre con forme poliedriche che tengano assieme le differenze, affinché si puntellino vicendevolmente e raggiungano linee di pendenza capaci di riequilibrare la velocità fra comunicazione dell’immagine e la sua fruizione, creando piani dove la storia possa scorrere al tempo giusto.
Un dispositivo, quello dell’artista, che riflette, interpreta, produce velocemente sempre qualcosa di autentico, perchè parte di un tutto di cui siamo ben consapevoli. Alla fine è come il distillato di un racconto con radici e ramificazioni rizomatiche, aperto ad accogliere e unire suggerimenti provenienti da tempi e luoghi differenti. “Voglio essere lupo, uccello, tigre. Mi annoio a essere uomo”, mentre un nuovo immaginario metamorfico evidenzia la mostruosità insita nelle pieghe della ‘forma bella’.
Andrea Bruciati