La scorsa domenica la scrivente ha presenziato all’inaugurazione della libreria Let’s Art in via del Pellegrino 132, praticamente uno dei pochi luoghi a Roma dove è possibile trovare un’ottima selezione di pubblicazioni riguardanti l’arte contemporanea, alcune introvabili. Lo spazio è chic ed accogliente e si può persino gustare un caffè od un ottimo vino mentre si sceglie il volume preferito. In mezzo a tutti quei saggi, cataloghi e volumi illustrati, la voglia di comprare è tanta ed allora la scelta è ricaduta su Vedere ad alta voce di Jerry Saltz, un compendio di 10 anni di arte contemporanea a New York raccontata con la giusta dose di ironia e veleno.
Leggere Saltz è sempre uno spettacolo anche perché parliamo di uno dei pochi critici capace di fornire giudizi imparziali ed irriverenti senza subire la sudditanza psicologica che attanaglia il resto dei suoi colleghi. Ma la critica, lo dice anche Saltz, non è una scienza perfetta ed a volte,per tener fede all’ostinazione di dover per forza risultar caustici o profetici, si prendono storiche cantonate. Un capitolo in particolare, dedicato alla storica mostra Sensation, mi ha fatto molto riflettere. Tra pochi elogi e molte stroncature il sarcastico critico descrive le avventure di Ofili, Hirst e soci in quell’ormai storica tappa dell’ottobre del 1999 al Brooklyn Museum di New York. Il capitolo si conclude con queste frasi: “Le cosiddette tattiche provocatorie degli artisti inglesi daranno da pensare agli americani, ma con tutta la benevolenza del caso, la mostra stessa non lascerà un gran segno“.
Con il senno di poi è facile rendersi conto che le cose non sono andate così, Sensation è entrata di diritto nei libri di storia dell’arte contemporanea ed i suoi protagonisti sono ad oggi gli artisti più quotati del mondo. Onore a Saltz che ha comunque avuto il coraggio di ri-pubblicare quel pezzo dell’ottobre del 1999 (apparso sul Village Voice) all’interno del suo libro, come a voler ribadire che non è sempre possibile prender la critica troppo sul serio e basarsi unicamente sulla lungimiranza dei “nomi che contano”. Non esiste nessun druido, nessun oracolo capace di compier divinazioni sul successo (o meno) di un dato artista, di una data corrente creativa. Nel mondo dell’arte contemporanea nulla è prevedibile ed a scriver giudizi rigidi o castranti c’è il rischio di finire come quei parrucconi che all’epoca bollarono la radio di Marconi come uno strumento inutile. Noi siamo la critica ma non siamo onnipotenti e soprattutto non sempre siamo dotati della la libertà di scrivere ciò che vogliamo, troppi vincoli economici e clientelari ci incatenano, troppi meccanismi occulti ci deliziano mortalmente. Dovremmo fare come Saltz, mettere in evidenza gli sbagli del passato, riderci sopra per correggersi in corsa e non continuare stupidamente a mantenere delle posizioni che non servono a nessuno.
Micol Di Veroli