Dopo il progetto {to} PLOT, presentato in anteprima ad ArtVerona 2011, il 15 ottobre la OTTO Gallery di Bologna è lieta di ospitare la mostra {to} PUZZLE che vede nuovamente coinvolti Andrea Facco, Gianni Moretti e Giovanni Termini. A differenza del progetto {to} PLOT, in cui gli artisti erano invitati a relazionarsi in spazi delimitati a priori, la mostra a Bologna adotta un allestimento del tutto diverso, disponendo le opere con soluzione di continuità o di contaminazione reciproca. La miscellanea di opere, che rispetta criteri di prossimità linguistica e di analogia visiva, non intende proporre una tripersonale bensì un’esposizione corale. Com’è noto, il puzzle è un enigma che può essere risolto con molta pazienza ma occorre anche un metodo preciso per riuscire a far “coincidere i pezzi”.
Tuttavia, nella lingua inglese il verbo to puzzle significa “confondere”, ed è proprio l’idea della miscellanea a definire un rimescolamento dei generi e delle problematiche che caratterizzano le ricerche dei singoli artisti. Mettendo in relazione i materiali poveri di Moretti con i materiali industriali di Termini e quelli pittorici di Facco, la mostra si pone l’obiettivo di verificarne le ricerche artistiche più che le opere in strictu sensu. Gli artisti, infatti, indagheranno il processo da cui ha origine il proprio lavoro, esercitandosi intorno al linguaggio dello scetticismo, di chi cioè questiona l’esistenza di ogni opera ricacciandola nel dubbio dell’origine. Come spiegano gli artisti: «la creatività si nutre dei conflitti che cerca di sedare inutilmente» [Termini], «il lavoro finale è un “incidente”» [Moretti], «dall’idea alla realizzazione c’è in mezzo tanto tempo e non sempre è divertente» [Facco].
Le opere di Gianni Moretti si arrovellano su un “processo costantemente frustrato”, sono esercizi – di aderenza, avvicinamento, approssimazione, misurazione, salvataggio – che fanno leva sull’ossessione e sul diritto all’errore, sancendone l’estetica. La predisposizione all’imprevisto e al disequilibrio diventa quindi lo strumento di comprensione e di significazione delle cose, capace di far aderire la realtà a un modello ideale che le preesiste nella mente. Giovanni Termini indaga invece il concetto di opera aperta e opera chiusa attingendo alla “estetica dei cantieri”, luoghi di seduzione e fonte d’ispirazione da cui poter attingere quella sovrastruttura che gli permetterà di approdare alla forma finale; le sue opere sono portate a misurarsi con lo spazio (solo apparentemente) vuoto, verificando le storie minime/residuali che in esso attendono di essere pensate. Il concetto del residuo è presente anche nella ricerca di Andrea Facco, il quale si cimenta con la grande tradizione pittorica ponendosi il problema di rivelarne il modus pingendi.
L’infingimento delle immagini e lo svelamento della loro struttura sintattica (non più “a perdere”) vengono esplicitati attraverso il linguaggio meta-pittorico, che non intende dipingere aneddoti ma desidera piuttosto raccontarne la genesi creativa.