Le aziende sono fondate sui principi dell’economia moderna, quadrature di bilanci e manovre tecniche per ottimizzare la produzione riducendo i costi sono quindi il motore centrale che alimenta questo tipo di organismi votati al commercio. Negli ultimi anni questo modus operandi si è esteso a macchia d’olio inglobando anche la res publica, non a caso parlando dell’Italia si è cominciato ad utilizzare la definizione di azienda-stato, questo per sottolineare un comportamento sempre più attento alle logiche di mercato ed alle dinamiche del bilancio interno.
Con il passare del tempo questa “febbre” dell’economia è riuscita a spodestare le questioni politiche e sociali, riducendo il tutto ad una faccenda di numeri. Questo passaggio dall’aspetto per così dire filosofico a quello teorico si è da tempo innescato anche nel mondo dell’arte ed in special modo nelle istituzioni museali. I direttori dei musei sono oramai degli abili manager, degli amministratori in grado di far quadrare i conti e di stringere rapporti con gli altri musei-azienda sparsi per il mondo. Studiare storia dell’arte e museologia, portare avanti una lunga e onorata carriera nel settore, continuare a studiare, vedere ed osservare, conoscere artisti ed opere, tutto questo non serve più. Ormai queste esperienze sono state soppiantate dai seguaci di Keynes e Smith. La figura che può funzionare come esempio di questa lenta ma inesorabile rivoluzione è Jeffrey Deitch, gallerista di grido della Los Angeles rampante (sua la galleria Deitch Projects fondata nel 1996) che in seguito si è aggiudicato la poltrona di comando del MOCA di Los Angeles.
Non bisogna certo essere delle volpi per accorgersi di una paurosa serie di conflitti d’interesse tra direttori che consegnano le chiavi del museo ad artisti amici protetti da galleristi amici. Il tutto per far salire quotazioni e prestigio ed oliare bene i cardini delle proprie “interrelazioni”. Del resto i valori estetici e culturali non sono nulla riguardo al ritorno economico ed alla sussistenza del museo. Avremmo così sempre più contenitori impegnati a “resistere” e sempre meno poli culturali destinati alla cittadinanza. Forse è così che deve andare.