Del suo ritorno sul grande schermo si è molto discusso, non tanto in relazione alla nuova proposta, quanto piuttosto a causa di certe dichiarazioni poco gradevoli rilasciate dal regista in occasione della presentazione del film: stiamo parlando del grande Lars Von Trier e del suo ultimo lavoro Melancholia.
Volendo tralasciare le suddette vicende, di cui ci siamo già occupati in precedenza, mi sembra doveroso spendere due parole per quello che considero un nuovo capolavoro del regista danese. Uso il termine “nuovo” perché non è la prima volta che il buon Lars ci mette di fronte a vere e proprie esperienze artistiche a 360°: come non citare opere di eccezionale intensità quali Le onde del destino, Dancer in the Dark o Dogville, solo alcune tra le più note.
La sua precedente prova del 2009, Antichrist, recava in sé alcuni sviluppi nella ricerca del regista tali da farci intravedere un nuovo intento, ma essi appaiono chiarificati nell’esperienza attuale.
Antichrist pur dotato di zone di grande intensità era apparso incompleto, eccedente e mancante al contempo. Con Melancholia, Von Trier corregge il tiro, dosa bene gli elementi e ci regala un prodotto organico e diversificato.
La trama, se ancora ha senso parlare in questi termini, si dispiega attraverso le due figure centrali del film, le sorelle Justine e Clare magistralmente interpretate da Kirsten Dunst, a cui è toccato il premio per la migliore interpretazione femminile al 64° Festival di Cannes, e Charlotte Gainsbourg la cui raffinatezza nell’interpretazione è caratteristica ormai nota al pubblico del grande schermo.
Questi due personaggi in antitesi, rappresentano con le loro sfaccettature psicologiche, le più significative variabili umane e sembrano condividere anche un profondo legame, qualcosa che va al di là della parentela e che allude all’esperienza dell’umanità tutta.
Se Justine avverte la smania di non riuscire a dare un senso all’esistenza, Claire si circonda di sfarzo, di bellezza, di rigore, per cercare di redimere questa mancanza. Queste attitudini psicologiche si intensificano nel momento in cui le due donne si trovano a dover fare i conti con una fine imminente, non la loro, quella del mondo intero.
Il film si poggia su una base di verosomiglianza che richiama le esperienze precedenti nell’ambito delle ricerche intorno a Dogma.
Nell’inizio, costruito intorno al matrimonio di Justine, Von Trier mette in scena tutte le ombre che caratterizzano le razioni sociali e formali; attraverso esse l’umanità sembra annichilirsi completamente, perdere ragion d’essere.
Nella fase successiva, profetizzata dalle visionarie sequenze iniziali, la trama comincia rarefarsi, a perdere contatto con la realtà circostante, a concentrarsi maggiormente sull’intimità dei protagonisti.
La fine viene sentita prima ancora come esperienza interiore e, solo nelle ultime scene, come momento concreto.
Le immagini hanno una bellezza cruda, non sono mai eccedenti e tuttavia possiedono tutta la forza della realtà cinematografica; come in un’opera rinascimentale sono impreziosite da bagliori personali che accompagnano delicatamente le figure dei protagonisti, come non pensare allo splendido nudo notturno di Kirsten Dunst, o al volto sofferente di Charlotte Gainsbourg immerso in una luce avvolgente che eleva la sofferenza personale a moto universale.
Il trattamento “pittorico” dell’immagine si rivela anche nelle numerose citazioni alla pittura: dall’immagine di una Kirsten Dunst/Ofelia, a I cacciatori della neve di Bruegel alle opere di Malevič riportate in un catalogo illustrato.
Vi è in tutta l’opera la ricerca di una bellezza visionaria che non è un’eccedenza rispetto al contenuto e che anzi rimarca in maniera evidente quanto dibattuto dalle due protagoniste. “Non c’è niente. Siamo soli.”: asserisce laconicamente Justine, eppure essa stessa nella sua copula notturna con il pianeta sembra rimandarci ad un sentire, qualcosa di sottile e intimo, qualcosa che sentiamo di condividere con il circostante ma di cui al tempo stesso non possiamo rintracciare origine.
Non a caso sappiamo di preciso che gran parte della produzione di Von Trier si riferisce a quella di un grandissimo pilastro del cinema: Andrej Tarkovskij; è proprio nel religioso rapporto con la natura che si innesta il legame tra i due registi. La grandezza di Lars sta nel non emulare il regista russo, operazione che risulterebbe fallimentare in partenza, ma nell’attualizzare questo rapporto inquadrandolo in una società che vive questo legame in maniera sempre più drammatica.
C’è chi ha definito questo film “un film senza speranze”, questo già lo renderebbe grandioso, ma è innegabile che la sua grandezza consiste soprattutto in quel sentimento malinconico (appunto) che è proprio di chi conserva dentro di sé l’esperienza vaga di un senso che si rivela per poi negarsi nuovamente.
“Sono un uomo che fa tesoro di sofferenza, crocifissione e senso di colpa – afferma il regista – ma c’è anche un lato luminoso della vita, un qualcosa che i film potrebbero mostrare. Mostro questa luminosità in ‘Melancholia’…”.