Nel 1970 Robert Mapplethorp aveva 25 anni, frequentava il Pratt Institute, era bello, entusiasta e viveva con Patti Smith. Si dilettava a realizzare collage ritagliando immagini dalle riviste, ma quando gli regalarono una Polaroid capì subito che non c’è nulla di meglio che costruirsi da se le immagini di cui si ha bisogno.
Sedici anni più tardi Robert scoprì di essere malato di AIDS, lo spirito con cui affrontò gli anni di malattia si carpisce osservando due autoritratti esposti allo Spazio Forma. Le due fotografie sono vicine, in una si vede emergere dal buio il suo volto invecchiato precocemente, fissa lo spettatore e in mano stringe un bastone la cui testa è intagliata a forma di teschio. Nella secondo fotografia, subito accanto, si vede solamente il teschio intagliato del bastone.
Non credo servano tante parole su Robert Mapplethorpe, è uno dei più famosi fotografi del Novecento e la sua cifra stilistica è riconoscibile al primo sguardo,ma in qualche modo ancora oggi viene indicato come lo scandaloso fotografo gay.
Ho capito che nel 2011 esiste ancora un problema reale nell’affronatre il nudo non pornografico, come ci fosse un problema di incasellamento. Me ne sono resa conto origliando una coppia che visitava la mostra, due adulti che avevano superato la maggiore età da un pezzo commentavano le opere e gli apprezzamenti andavano sempre e solo alle immagini in cui gli organi sessuali erano nascosti. Il pudore è una cosa bella, ma davvero non riusciamo ad uscire dalle gabbie mentali? Parlando di Mapplethorpe credo che semplicemente non si centra il bersaglio se ci si ferma a ciò che è rappresentato.
Questo accade perché non si dovrebbero approciare le fotografie di Mapplethorpe guardando al contenuto, qui si parla di forma geometrica ed equilibrio classico. Siamo di fronte alle statue greche che incontrano contemporaneamente l’uomo vitruviano ed Andy Warhol, è pure estetica dell’immagine, non del contenuto.
Quindi superato l’imbarazzo della vista di così tanti cazzi (perdonate la parola, ma questa è scritta sulle didascalie al museo, e questa usava l’artista insofferente ai limiti sciocchi della morale), la mostra si dimostra come un’ottima e grande retrospettiva.
Frutto di una collaborazione internazionale, dopo Dusseldorf, Berlino e Stoccolma, le 178 fotografie originali approdano nell’ex deposito Atm con un allestimento azzeccato e pulito.
All’entrata una carrellata delle Polaroid degli inizi e un serie di autoritratti messi in ordine cronologico, utili a comprendere immediatamente la poetica dell’artista. Poi una sala di nudi maschili, potremmo dire “un classico” o comunque le immagini a cui tutti pensano se si nomina Mapplethorpe. Proseguendo, nella sala quadrata, si gioca con gli opposti costruendo il percorso concettuale sulle diagonali: in due angoli contrapposti troviamo peni e fiori (il fotografo considerava gli uni alla stregua degli altri, intesi come elementi da fotografare); sull’altra diagonale invece abbiamo due modelli di femminilità. Lisa Lyon, una delle prime bodybuilder donna, a cui Robert dedicò anni di ritratti e studi, e Patti Smith, amici di gioventù e musa ispiratrice. Una donna che è forza, muscolo, forma contrapposta a un’altra che è immateriale, voce, spirito.
In mezzo a queste traiettorie pericolose di opposti che si attraggono, riparati, pochi ritratti di bambini. Pezzi rari dai malinconici toni sfumati del grigio, ciò che è perfetto in potenza permette al fotografo di smettere per un attimo di cercare la perfezione.
Concludono la mostra alcuni ritratti dei personaggi che hanno reso gli anni ’70 e ’80 di New York quel sogno luccicante e decandente che tutti conosciamo.