Time will tell segna il ritorno di Carlo Bach sulla scena artistica da protagonista, con la mostra personale che inaugura oggi da LipanjePuntin artecontemporanea, a cura di Marco Puntin.
Fotografie, objets retrouvés, pareti screpolate dalla storia e dalla memoria, oggetti antichi e solidi da cui fuoriesce un flusso costante di sabbia: queste sono le opere esposte. Un’interpretazione personalissima del tempo da parte di Bach. Il tempo, come categoria oggettiva o soggettiva, è stato indiscutibilmente uno dei fulcri su cui si è imperniata la riflessione filosofica di tutti i tempi: a partire dalla concezione ciclica e circolare, legata alle cadenze della natura del mondo pagano, alla rivoluzione agostiniana del tempo lineare, per arrivare alla riflessione degli ultimi secoli, in cui ogni possibilità di cogliere il tempo, come fattore esterno, eterno e immutabile, si disintegra sotto i colpi della soggettività.
L’individuo forse per la prima volta nella storia diventa il vero centro dell’universo e la percezione del singolo si assume il significato e la definizione di questo concetto complesso, rimasto indefinibile e sfuggente per secoli. Sant’Agostino nell’undicesimo libro delle Confessioni diceva: Quid ergo est tempus? Si nemo ex me quaerit, scio: si quaerenti explicare velim, nescio(Allora che cosa è il tempo? Se nessuno me lo domanda, lo so. Se voglio spiegarlo a chi me lo domanda, non lo so più). Passando a qualche secolo dopo, troviamo un’idea diversa nelle parole di Italo Svevo: l’individuo quantifica il tempo, declinandolo secondo la propria personalissima comprensione, rendendosi così unica unità di misura di ciò che si può definire passato, presente e futuro.
Per Carlo Bach il tempo, e conseguentemente la memoria, che è recupero del passato secondo una concezione lineare del tempo, non è più inserito nella prospettiva del progresso dei sistemi epistemologici positivi, non è più univoco e monolitico. Diventa così impossibile recuperare i significati profondi che si nascondono nelle pieghe di ciò che ormai è scivolato via nel frenetico scorrere del tempo. L’unica via percorribile è l’archeologia del frammento secondo le parole di Walter Benjamin. Il senso e la verità da un lato non possono più strutturarsi come un sistema ben definito che trova nel passato le proprie fondamenta con l’immediata conseguenza che l’unica significazione possibile è strettamente legata all’hinc et nunc, dall’altro sono una faticosa ricostruzione della mappa dei frammenti che si possono recuperare solo a partire dagli oggetti che provengono da quell’imperscrutabile passato.
Oggetti ritrovati, in cui si sono sedimentati e sovrapposti significati del passato e del presente, secondo un personalissimo sguardo dell’artista, che usa lo strumento del gioco e dell’infanzia per recuperare quelle memorie rese opache dalla distanza siderale che intercorre tra il momento in cui hanno cominciato ad esistere ed il presente.
Lo scorrere del tempo si ritrova anche nella parte materiale e, propriamente materica, della ricerca artistica di Carlo Bach: la sabbia e la polvere di ferro. La prima per il suo essere solida e insieme fragile, uno degli strumenti più antichi con cui veniva misurato il tempo: la clepsamia, o clessidra a sabbia, infatti è stata la misura del viaggio di Magellano per la prima circumnavigazione del globo. Ma anche una delle prime materie con cui l’essere postmoderno viene in contatto, nel giocare con la sabbia, costruire castelli e sogni insieme, e attraverso questo gioco, per la prima volta, nell’infanzia ci confrontiamo con il mondo degli adulti, che è costruzione fisica e mentale, esercizio costante della ricerca di senso.
La mostra è stata realizzata in collaborazione con a.c. artport 1 e con l’adesione della Casa dell’Arte.