Percorrendo velocemente e distrattamente le vie dello storico Rione Ludovisi l’occhio è catturato da un’insolita vetrina, dove è allestita un’installazione ambientale costituita da innumerevoli fili neri generati dalla scritta ‘In defence of free forms ’ (‘In defence of free forms – part 2’, tecnica mista, installazione ambientale, 2011), titolo della prima personale di Esther Stocker (Silandro, 1974 – vive e lavora a Vienna) presso OREDARIA Arti Contemporanee.
Già nota nella capitale per il suo recente intervento al MACRO (Destino comune), Esther ha esordito alla fine degli anni Novanta con alcuni dipinti astratti in cui segni geometrici e griglie ortogonali si sovrappongono attraverso l’uso di tre tinte: bianco, grigio e nero. Composizioni che richiamano il concetto di ‘camouflage’ con lo scopo di esplorare le facoltà percettive dell’uomo. Una poetica che pone le proprie radici nelle esperienze della Op Art, rivisitandole e oltrepassandole. Il suo camuffamento, infatti, si svela tramite irregolarità che caratterizzano i suoi lavori, anomalie create per asserire che nulla è prevedibile.
Scendendo la scalinata d’accesso alla galleria si apre davanti al fruitore una sala bianca e luminosa. Qui, attraverso una serie di listelli neri che emergono dalle pareti, dal soffitto e dal pavimento, l’artista ha evidenziato il senso prospettico e orizzontale della sede romana con ‘In defence of free forms – part 1’ (elementi di legno, installazione ambientale, 2011). Il contrasto, tra chiaro e scuro, rafforza l’idea di entità lignee pensate come ostacoli abilmente posizionati per mutare il lineare percorso che lo spettatore effettuerebbe. Una perfetta costruzione a tratti interrotta, originando un vuoto, per poi riprendere il suo corso poco più avanti. Soggetto della sua riflessione artistica è, appunto, la disintegrazione dello spazio conosciuto, con lo scopo è immettere il visitatore in uno stato di disorientamento ed isolamento, così da stimolarlo ad un cambiamento. In questo caso l’osservatore è introdotto verso l’esplorazione di ‘vedute’ inattese, affermando la possibilità di un’esperienza asimmetrica.
Nella seconda sala sono presenti tredici tele di varie dimensioni realizzate tra il 2010 e il 2011. Alcune, mai esposte in pubblico come ‘Untitled’ (acrilico su tela, 115x140cm, 2011), denotano un’ulteriore sviluppo nella sua indagine: ora le originarie strutture chiuse, sono completamente libere, sganciate dal rigido sistema in cui erano precedentemente costrette. Conclude la mostra ‘In defence of free forms – part 3’ (tecnica mista, installazione ambientale, 2011), posta sul muro della terza navata, che conferma il passaggio di Esther verso la terza dimensione: pannelli sottili, bianchi e rettangolari, sovrapposti tra loro, emergono dallo sfondo nero che li ha originati, divenendo elementi plastici a se stanti.