La galleria Monitor di Roma inaugura oggi la prima personale in galleria di Peter Linde Busk e Tomaso De Luca. La ricerca di Peter Linde Busk (Copenhagen, 1973) ha radici lontane, guarda alla pittura espressionista e alle antiche tecniche dell’incisione e della xilografia. Le tematiche e titoli dei suoi lavori mutuano gli insegnamenti di nomi prestigiosi della letteratura del passato: Charles Baudelaire, Rainer Maria Rilke e Arthur Rimbaud per fare qualche nome, insieme ai più moderni David Milch e David Simon creatori rispettivamente delle serie televisive ‘Deadwood’ (2004 – 2006) e ‘The Wire’ (2002-2008).
Di fondamentale importanza, per Peter Linde Busk, la lettura del saggio di Hans Prinzhorn Artistry of the Mentally Ill (1922) considerato come il primo tentativo di analizzare i disegni di persone affette da malattie mentali non solamente sotto il profilo psicologico ma anche estetico. Guardando i lavori di Busk si possono riconoscere suggestioni derivanti dall’iconografia medioevale, con le sue figure sghembe e cesellate nelle absidi di svettanti cattedrali romaniche, suggestioni che si uniscono a sapienti riferimenti all’arte del gruppo Cobra.
Il lavoro dell’artista danese, iscrivendosi nella tradizione della ritrattistica antieroica, mette in atto una mise en scene di personaggi apparentemente marginali che divengono protagonisti indiscussi: re senza corone, quasi ectoplasmatiche figure femminili, cavalieri con sgargianti copricapi che richiamano immagini di guerrieri napoleonici, popolano un mondo apparentemente scomposto e surreale, in cui il tempo si cristallizza nella ieraticità della posa. Come sottolinea Aaron Bogart nel recente scritto su Busk (All In, 2012), nonostante le stranianti caratteristiche, l’umanità insita in queste sghembe e misteriose figure ci coinvolge al punto che vogliamo conoscere la loro storia. Le figure di Busk si rivelano fatte di vere e proprie stratificazioni: lo spazio della tela è completamente riempito di pattern, colori, sovrapposizioni. Al punto che i personaggi ne risultano a volte completamente inglobati o stranamente isolati, come se venissero improvvisamente illuminati da un riflettore acceso per errore.
Tutto in Peter Linde Busk esprime suspense, attesa, indeterminatezza e, insieme, un senso di assoluta libertà. Se, per dirla con Edward Munch “the most universal is the most private”, Busk spesso si riferisce al proprio lavoro come ad una sorta di “autoritratto rimosso”, realizzato attraverso l’uso di figure archetipe, personaggi e creature fantastiche che descrivono il rapporto con il proprio io e la relazione con il mondo esterno, investigando la natura umana e puntando ai temi universali che la sottendono. Il titolo della mostra, No Pasaràn comunica un’idea di resistenza che è da intendersi non solamente in relazione ad una situazione storica o politica, o all’azione di forze esterne ma, più precisamente in questo caso, a forze che sono del tutto interiori. La mostra sarà accompagnata da un catalogo contenente il testo di Aaron Bogart All In.
Nel lavoro di Tomaso De Luca (Verona, 1988) l’uso simultaneo di pratiche diverse innesca una vera e propria ri-analisi della “grammatica” del pensiero e del senso di sicurezza ad esso connesso. De Luca è interessato allo sguardo storto sulle cose, all’abbandono del sistema del pensiero verticale, ragionato, a favore della sua anti-logicità e delle crepe che il linguaggio e lo spazio lasciano inesplorate. Il fare ed accadere giungono prima dell’atto del semplice pensare. Attraverso i suoi soggetti che ruotano intorno al senso del corpo, della storia, del paesaggio e dello spazio, l’artista elabora le sue considerazioni sull’idea di monumento erodendone l’immobilità e la struttura che gli é propria.
Nel progetto 100 Teste per un cacciatore (100 Heads for Hunter), completato nel 2010, De Luca realizzò 100 disegni di un’ enorme scultura appartenente al periodo fascista (oggi conservata nel parco di Monte Mario a Roma) sovrascrivendo l’immobilità della pietra attraverso l’atto reiterato del disegnare. In Movement/Monument, realizzato nel 2011, l’artista ha creato un monumento ‘mobile’, reminescenza dell’evacuazione del quartiere di San Lorenzo a Roma in seguito ai raid aerei degli alleati nel 1943 e la successiva occupazione di Villa Torlonia da parte degli sfollati. Con un gruppo di studenti romani, De Luca ha organizzato una marcia attraverso lo stesso percorso intrapreso dai rifugiati, quasi mutuando il cammino di un monumento equestre. L’artista ha assemblato frammenti di materiali di scarto provenienti da una marmeria e li ha successivamente legati al piede di ciascun partecipante, per indurre un movimento claudicante ed imperfetto.
De Luca, sperimentando movimenti e attrito tra materiali diversi, osservando l’erosione dei monumenti e del loro significato, prende possesso degli scarti teorici e materiali del processo lavorativo, cancellando in questo modo la distinzione tra atto e scultura, tra evento e commemorazione. The Monument, progetto realizzato per la sua prima personale a Monitor, nasce dalla riflessione sulla migrazione dell’architettura e del monumento, oggetti governati dalla statica, per i quali la fissità dello spazio e delle forme costruisce un territorio sicuro entro i cui confini potersi muovere, osservare, conoscere. The Monument racconta di un esodo, una ritirata panica ed al tempo stesso organizzata, un tentativo spossante e continuo di mettere in movimento ciò che è fermo. Attraverso il disegno, pratica “lenta” per eccellenza, l’artista organizza la fuga delle sculture e dei monumenti della città di Roma.I corpi delle statue, interi o in frantumi, si sparpagliano cercando il modo di abbandonare lo spazio dove sono stati costretti, fuggendo goffamente altrove. Così facendo De Luca crea un dispositivo di disorientamento, un luogo dove i riferimenti cambiano in continuazione e nel quale i monumenti, diventati più simili ad archetipi interiori, incrinano le coordinate ad ogni movimento. Come un architetto dell’incertezza l’artista produce un mutamento tanto lieve quanto potente, dissemina nello spazio non rovine ma soggetti attivi, “mostri” che girano in tondo e che oscillano, sospesi nella possibilità di un movimento, che forse non avverrà mai.