“Leggo per legittima difesa.” (Woody Allen)
Confesso di aver fatto la mia tesi di laurea su Romiti. E di non averci trovato nulla di “warholiano”, per così dire.
La pittura di Sergio Romiti, per me, è stata quasi come se Morandi avesse incontrato Montale e con lui si fosse accorto del vuoto dietro le cose, con un terrore da ubriaco avesse accettato di indagare in pittura l’inganno consueto.
Come se Agilulfo dentro l’armatura avesse dipinto invece di agire, ma con un gesto introflesso cancellando anche il mondo fuori di se. Tutto questo senza gli schemi appiglio di Mondrian o di Kandinsky, senza il suono delle linee, senza la forma materica dell’informale, senza il segno alla Kline, senza la natura vitale a dare alcun supporto.
Come se Whistler incontrasse il bianco e nero puro, come se una pellicola di Rossellini avesse preso fuoco. Il nastro bruciato pare presentare ancora qualcosa: un barlume di luce della vecchia realtà.
Come si può confrontare tutta questa introflessione, questo silenzio, questa applicazione, con la serialità rumorosa e mondana di Warhol?
Personalmente credo che Warhol sia la paura della morte rintronata intrappolata nella superficie delle cose. Esibizione del nulla fuori opposto all’indagine del nulla dentro.
Forse due dolori… un intuizione dell’autore del libro Roberto Pasini li accosta.
Il silenzio dentro, il rumore fuori, il vuoto nulla bianco ovunque; nausea alla Sartre: le cose ci invadono, ci inebriano, gira la testa, vien da mancare, paura nell’esistere, indagine concreta dell’immagine e dell’immaginario.
Et io, timido lettore, con loro, col nostro segreto, senza voltarci.