Tieni Marina, ecco due ore del mio tempo – The Abramovic method parte seconda

di Redazione Commenta

Per lei, Marina, tutto iniziò chiacchierando con un pastore sardo il quale, ogni volta che prendeva parola, chiudeva gli occhi, perchè a suo dire mentre parlava non aveva bisogno di guardare. Per me invece è iniziato tutto con un messaggio su WhatsUpp: “La mia amica non viene, vieni tu?”. Così mi sono ritrovata al Pac, di nuovo, ma questa volta per regalare due ore del mio tempo alla nonna della performance art Marina Abramovic. Forse dopo il mio ultimo articolo qualcuno lassù ha pensato che bisognava darmi una seconda chance.

E così ho firmato il contratto, la liberatoria per le riprese, ho promesso di non avere attacchi di panico e sfilato di fronte al pubblico fino ad arrivare nell’ultima sala, lì dove il metodo ha inizio. Dove Marina ti chiede di indossare il camice bianco, accomodarti sulla sdraio bianca e chiudere gli occhi come faceva il pastore sardo. È facile darle fiducia, perchè ha il tono di chi sa quello che fa e te lo racconta come una nonna spiegherebbe la torta di mele alla nipote, nulla di più semplice. Ora io vorrei con le parole farvi incarnare in me stessa, così da provare a capire le stesse cose che mi sono passate nelle mente per quelle due ore di pausa dalla realtà, ma non è possibile. E poi, molto probabilmente, vi interesserebbero poco perché è davvero un’esperienza personale: io, spettatore, mi incarno nel corpo dell’artista, entro nella sua arte e la rendo possibile.

In fondo è quello che facciamo ogni volta che ci approcciamo un’opera, se siamo bravi spettatori, la rendiamo reale, ognuno a modo proprio. Questa volta il metodo, per rendere possibile la magia dell’arte, richiede molta più fatica e molta più fiducia, verso l’arte prima ancora che verso l’artista. Recentemente Marina ha dichiarato in un intervista a proposito della performance che “prima di tutto è guidata dall’arte, secondo è arte vivente e terzo è una forma d’arte immateriale”. Non puoi appenderla ad un muro come un quadro e forse anche per questo ha sempre faticato ad entrare nell’olimpo delle Arti. La performance è spesso considerata intrattenimento prima che arte ed è per questo che la Abramovic decise di presentare al MoMa un’opera imponente come The Artist is present.

Eppure a parlare con gli scettici c’è ancora chi dubita dell’onestà dell’artista, io in effetti ho voluto performare come San Tommaso voleva toccare le piaghe di Gesù e come lui, mi sono ricreduta. Ognuno reagirà diversamente dal punto di vista di percezione: senti caldo, senti freddo, ti senti il corpo, ne senti solo metà, non lo senti affatto, ti senti oppresso, ti sembra di volare… Ma è solo percezione, è davvero così importante sapere di potersi fidare dei propri sensi? È un “qui e ora” eterno quello che stiamo vivendo ed è la fatica fisica, che aumenta man mano, che ci ricorda di essere corpo e mente. Corpo e mente sono in lotta tra loro.

Il metodo è da approc ciare seriamente, altrimenti saranno solo due ore noiose. Ci vuole la curiosità e il volersi mettere alla prova. E visto che in fondo la presenza dell’artista è relativa (il lavoro sporco lo fai tu) mi sento di consigliare a chi può di prenotare e provare, perché sapere che a me il magnete mi faceva sentire la testa in fiamme non risponderà ai vostri dubbi. Non so quanto io sia diventata opera d’arte in quel momento, non so nemmeno se questo sia davvero importante, sicuramente Marina Abramovic sta realizzando qualcosa di unico nella storia. Se attraverso la performance si supera la tangibilità dell’opera d’arte, col metodo si supera anche il confine tra artista e pubblico e si diventa un unicum. Se non è rivoluzionario questo…

 

 

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