Brand New Gallery è lieta di presentare la collettiva Changing states of matter, una mostra pensata per svelare i processi della creazione artistica, che si svolgono attraverso una “produzione ipotetica” del reale, portata al limite estremo dell’esperienza sensoriale. Attraverso la frammentazione del lavoro iniziale, questo gruppo di artisti indaga la materia per rivelarne nuove forme e sembianze, dando vita a mondi misteriosi ottenuti sovvertendo le tecniche artistiche tradizionali. Ognuno degli artisti inclusi in questa group show sceglie il mezzo espressivo in base alla propria esperienza della materia tangibile e dell’intimità della memoria. La materia diviene quindi metafora delle strutture sociali e delle realtà che ci circondano, e la sua aggressione diviene pratica utile ad esplorare il rapporto con l’alterità ed il reciproco scambio che costantemente avviene tra le persone e gli oggetti.
Sebbene alcune delle opere proposte in questa mostra possono sembrare, nei termini canonici della storia dell’arte, molto tradizionali, la differenza è apportata dalla sovversione dei luoghi comuni ereditati e connessi con il genere. Esse svelano una tensione evidente tra il pensiero ed il processo costitutivo, che consente di concepire una nuova modalità scultorea offrendo una visione caleidoscopica di spazi indefiniti.
Alcuni degli artisti presentati in questa collettiva si esprimono mediante un linguaggio tradizionale, come Gabriel Hartley e Ivan Seal, che utilizzano un approccio pittorico per costituire opere più o meno materiche in cui sono costruite e scavate forme instabili, misteriose e sensuali, o come Aaron Angell, che si rifà ad antichi rituali medievali e manipola i materiali attraverso laboriosi processi artigianali, che gli consentono di giocare con la materia e la sua assenza formale, inducendo una disgiunzione estetica che si manifesta per via di accorpamenti imprevisti e continui rimandi culturali. La ceramica da parete di Mai Thu Perret ricorda un fossile biomorfo e la sua opera plastica si pone come punto di contatto tra la forma modernista e l’arte applicata, mentre Kadar Brock invita l’occhio a vagare ansiosamente tra una serie di stratificazioni che delineano composizioni astratte e sperimentali, ottenute attraverso un processo rituale e contemplativo di raschiatura e levigatura della superficie.
Bianca Beck e Antonia Gurkovska hanno un approccio più aggressivo nei confronti dell’opera e sottolineano la natura effimera dei materiali, deliberati nel loro stato grezzo e approcciati in maniera ripetitiva, alla ricerca spasmodica di un’assenza che suggerisca la natura multipla e frattale dell’opera d’arte. Al contrario, l’azione distruttiva perpetrata da Matthew Chambers nel suo lavoro, consente una ricontestualizzazione dei brandelli di tela recuperati dai suoi vecchi dipinti per una nuova ricerca tesa verticalmente all’astrazione, come quella attuata parallelamente da Molly Zuckerman-Hartung, la quale sfida i confini della pittura tradizionale attraverso collage scultorei che prevedono l’impiego di materiali fuorvianti, ubicati in modo da sfidare le convenzioni artistiche.
Se Ry Rocklen si cimenta con la manipolazione dell’oggetto trovato elevando i suppellettili più banali a pura poesia scultorea, allo stesso tempo minimal e kitsch, Jessica Jackson Hutchins assembla manufatti ceramici e mobilio domestico dando vita ad un collage tridimensionale in perfetto equilibrio tra banale e sublime, in cui le forme aggregate trascendono l’immediatezza delle loro parti comuni. Analia Saban manipola la materia con una libertà sorprendente, che le consente di indagare e smontare gli oggetti in grado di offrirle la possibilità di essere ripensati da zero, mediante un approccio scientifico di estetizzazione estrema della realtà.
Scientifica è anche la metodologia applicata da Sam Falls, che sceglie i materiali impiegati grazie alla loro capacità di documentare il tempo, come il tessuto esposto in mostra, che restituisce un’immagine in grado di colmare il divario tra scultura, fotografia e pittura, ottenuta grazie all’esposizione prolungata alla luce naturale, di cui mostra l’eredità attraverso segni puri, sofisticati e astratti.
Un’estetica industriale si ritrova nella serigrafia su alluminio di Ryan Foerster, che agisce come uno specchio riflettendo lo spazio (non senza una vena malinconica) e nell’opera di Nicolas Deshayes, che propone una scultura ibrida e votata ad uno strano senso di ipermaterialità, ottenuta con materiali che distorcono l’ordinario e mantengono una presenza umana in convivenza di innesti che abbracciano l’estetica patinata del design del XXI secolo. Anche Rona Pondick si confronta con la realtà e l’immediatezza di una dura oggettualità, restituita attraverso superfici fredde e lucide che ricalcano forme ibride e iperrealiste, indagando il tema della metamorfosi tanto caro all’artista, mentre il lavoro di Steve Bishop si manifesta come una sorta di para-pittura instabile ottenuta facendo interagire del mercurio con una vecchia t-shirt stampata: l’argento vivo, catturato nelle pieghe e nei panneggi crea una composizione aleatoria di rivoli ed onde.
Il lavoro di Bishop dialoga con la complessità della rappresentazione e le sue opere giocano con l’identità culturale degli oggetti che vengono decontestualizzati per divenire opera d’arte grazie al loro aspetto puramente fisico, così come fisico è il confronto con l’opera di Folkert de Jong, che impiega per le sue sculture materiali industriali come polistirolo e poliuretano espanso, selezionati per le loro proprietà intrinseche e contraddittorie di economicità e indistruttibilità. Gli stessi materiali sono utilizzati da Lynda Benglis per ottenere forme scultoree non oggettive, caratterizzanti la sua produzione degli ultimi anni, costruite per aggregazione, al contempo evanescenti e prepotentemente fisiche, volutamente indecifrabili.