Una volta, non troppo tempo fa, le mostre in galleria erano un vero e proprio must ed in ogni città si organizzavano un numero impressionante di eventi, alcuni di altissima qualità ed altri un poco meno ma pur sempre meritevoli di uno sguardo. Del resto il cibo cattivo provoca intossicazioni, l’arte brutta per fortuna non ha mai rovinato la vista a nessuno, almeno credo. Eravamo nel periodo d’oro dell’arte contemporanea nazionale, quello in cui tutti parlavano di creatività, dove l’arte digitale rappresentava un futuro pieno di successi, dove la nuova critica scriveva libri sagaci e puntuali che puntualmente vendevano migliaia di copie.
Forse la crisi economica era già ben salda sul nostro groppone ma questo ai galleristi importava ben poco ed allora via con la produzione delle opere, con i vernissage ricchi di cibo e beveraggi, con i cataloghi finemente decorati e con le mostre organizzate dal curatore alla moda di turno. L’ultimo ventennio è stato il nostro “boom”, l’esplosione di una passione troppo forte per durare a lungo. Poi c’è stata la crisi, ma non solo quella economica, quella di contenuti, la smania di correre appresso agli statunitensi ed ai tedeschi, la sicumera dei critici nel vaticinare questa o quella tecnica come il next big thing della creatività. Poi, in un veloce battito d’ali eccoci al periodo dei vernissage senza neanche i salatini, quello senza il catalogo e con il foglietto volante del comunicato stampa, quello delle mostre senza curatore (ma questo non è poi tanto male), quello senza la pittura (purtroppo), senza la digital art (per fortuna) e senza nemmeno più la video arte, quello senza il pubblico e senza le mostre, quello delle lamiere buttate per terra, quello senza una vera identità e senza un vero futuro.
Per ora ci si limita ad immettere continuamente nuovi volti nel mercato, con la speranza di vederne crescere almeno uno. Si procede a casaccio mentre all’estero hanno tutti le idee chiare.