Fare arte vuol dire fare politica. Più che lecito parlare di arte politica o politica dell’arte, anche se per qualcuno l’arte rimane un momento di creatività slegata dal linguaggio politico. Eppure oggi più di ieri l’artista non può non tener conto degli aspetti per così dire “burocratici” della vita creativa. I musei, i ministeri, gli assessori, gli addetti, i direttori e persino i collezionisti, tutti appartengono ad un colore politico e purtroppo bisogna sapersi accodare se in qualche modo si vuole continuare a lavorare.
Piegarsi ai voleri dei potenti? Forse, del resto in Italia non c’è spazio per i puri e per gli anarchici dell’arte. Va inoltre detto che i signori di oggi hanno sostituito i committenti dell’epoca e che quindi l’arte è da sempre uno strumento gestito anche dal potere, oltre che dal mondo ecclesiastico. Prendiamo ad esempio le elezioni presidenziali degli Stati Uniti: a sostegno del buon vecchio Obama sono accorsi una moltitudine di artisti, senza contare il sempreverde Shepard Fairey che in sostanza aveva creato l’immagine simbolo delle precedenti elezioni con il poster Obama Hope (spudoratamente copiato da una foto di Mannie Garcia). Fairey è l’esempio lampante di arte politica che si trasforma in politica dell’arte. Oggi l’artista deve rispettare determinati equilibri, destreggiarsi tra fazioni e faziosi, accettare incarichi pubblici e creare monumenti pubblici. Insomma, l’artista politico o politicizzato è una normale evoluzione dettata dal mondo moderno. Sempre che tutto ciò possa considerarsi normale.