Continuiamo a pubblicare i progetti presentati dai magnifici 7 curatori al ministro per i Beni e le attività culturali Lorenzo Ornaghi che ha poi scelto quello di Bartolomeo Pietromarchi. Ecco quello di Beatrice Merz:
Dov’è Charlie? L’autoscatto del nostro Paese
Il mio progetto per il Padiglione Italia della Biennale traeva spunto dall’opera Senza titolo di Emilio Prini realizzata in occasione di una collettiva presso la Galleria Pieroni intitolata «Lo Zingaro Blu» (Roma, 1990), che nasceva da un’idea dello scrittore e poeta Francesco Serrao e che vedeva i suoi racconti accostati alle opere di Schifano, Mario Merz, Pistoletto, Accardi, Spalletti, Pisani e, appunto, Prini. Emilio Prini presenta una fotografia in bianco e nero che restituisce l’immagine di una macchina fotografica analogica fotografata continuamente fino alla consumazione del meccanismo, indicando così la corrispondenza tra opera d’arte e fotografia, e mettendo a fuoco quella relazione che si instaura tra il mezzo espressivo e l’oggetto d’arte. Partendo da questo lavoro (qui sopra) si voleva costruire un percorso di espressioni artistiche singolari, quelle che hanno saputo affrontare e integrare nella loro ricerca la fotografia. Una mostra inedita, che si sviluppava come una narrazione di sguardi simultanei tra passato e presente, secondo l’attitudine italiana che vede l’artista «fare politica facendo poetica». La figura emblematica di Emilio Prini, a oggi considerato come la posizione più intransigente dell’arte contemporanea, diventava così il punto di partenza per una mostra che voleva riflettere e riportare una selezione ristretta di voci italiane. Il titolo della mostra — Dov’è Charlie? — è una domanda cattelaniana, che proviene dalla tradizione enigmistica e chiede allo spettatore di fare un esercizio di logico divertimento. Una domanda che indica, però, anche il tentativo di ritrovare e ricostruire la varietà che abita l’Italia: un meccanismo, come ci suggerisce Prini, consumato dal tempo e dalle contraddizioni della storia, ma al quale bisogna dare spazio e libertà perché possa esprimere con forza la propria indole. Una mostra/scatto che voleva diventare un luogo domestico e vicino al pubblico. Un elemento scenografico, simbolico e metaforico della condizione italiana era stato pensato nel Giardino delle Vergini: una facciata di un set cinematografico proveniente da Cinecittà, da una macchina culturale che sta per chiudere i propri battenti dopo mezzo secolo. Rovina, metafora di un monumento decaduto o di una casa crollata in un paesino dell’Emilia dopo il terremoto: segno di un crollo. Ma anche collante temporale, simbolico ed estetico sullo sfondo di una serie di commissioni pubbliche, ad artisti dell’ultima generazione.
Chiara Parisi