Continuiamo a pubblicare i progetti presentati dai magnifici 7 curatori al ministro per i Beni e le attività culturali Lorenzo Ornaghi che ha poi scelto quello di Bartolomeo Pietromarchi. Ecco quello di Vincenzo Trione:
Voglia di radici: neo-moderni? No, post-classici
Nelle ultime edizioni, i curatori del Padiglione Italia della Biennale di Venezia hanno adottato un’ottica archivistico-descrittiva. Si sono limitati a documentare scenari caotici, dominati dal declino delle «idee forti». Ma davvero non esistono più punti di vista privilegiati per interpretare il presente? Non è così. Dietro il disordine della cronaca, si nascondono linee prevalenti, orientamenti linguistici costanti. La sfida sta nel rivelare le tensioni espressive ricorrenti sottese alla «maniera italiana» degli ultimi decenni: dall’Arte Povera alle esperienze di alcune personalità delle ultime generazioni. Da Pistoletto a Paolini, da Kounellis a Paladino, da Longobardi a Parmiggiani, da Spalletti alla Beecroft, per arrivare a giovani come Chirco, Barocco (sopra: Indovino), Gennari, Alis/Filliol. Sono, queste, voci diverse, che condividono la necessità di guardare indietro. Ad accomunarle è il desiderio di radicare le loro opere in regioni distanti. Senza idolatrare il nuovo, frequentano la storia dell’arte. Pur con sensibilità differenti, pensano la loro pratica come un gesto fondato non sul creare dal niente, ma sul «ritrovare». In particolare, scelgono di abitare la classicità, intesa come archivio di categorie assolute da rileggere. Patrimonio da rimodulare con disinvoltura, trasgredendo ordini e gerarchie. Non meta, ma riserva per l’avvenire. Spazio che può alimentare inquietudini. Rumore di fondo di cui non si può fare a meno. Territorio da riscrivere all’infinito. Questa involontaria tendenza potrebbe chiamarsi: «post-classicità». Non ha nulla in comune con i citazionismi postmodernisti, né con le riproposizioni anacronistiche. Figure e motivi dell’antichità vengono trasgrediti e ridefiniti attraverso l’artificio dello straniamento: sono acquisiti e smontati, in un gioco tra celebrazione e profanazione, tra appartenenza e disappartenenza. Uno stile disimpegnato? Piuttosto, uno stile anti-global, addirittura «politico». Perché, forse mai come in questo momento, si avverte il bisogno di un Padiglione fino in fondo «italiano». Che inviti a interrogarsi sul valore del nostro patrimonio culturale. E che, proprio in un tempo segnato da disagi e disorientamenti, scelga di misurarsi con i classici. Sulle orme di quel che ha osservato Coetzee: «Ciò che sopravvive alla peggiore barbarie, sopravvive perché generazioni di individui non riescono a farne a meno e perciò vi si aggrappano con tutte le forze — questo è il classico».
Vincenzo Trione