La pittura, lo Zombie dell’arte contemporanea

di Redazione Commenta


Se la pittura è morta, allora io vedo gli Zombie. Da tempo critici e articolisti hanno decretato la fine di questo medium, una morte lenta accertata agli inizi del 2000 che si è protratta sino ai nostri giorni. Peccato che a girar per musei, fiere e gallerie d’oltre confine ci si imbatte in numerose opere di pittura. Le gallerie italiane sono però convinte che i blocchi di cemento gettati in terra e le altre installazioni gigantesche e senza senso possano far registrare cospicue vendite. Il risultato è che molte di queste gallerie hanno chiuso i battenti mentre i collezionisti continuano ad utilizzare la pittura come bene rifugio. A parole si può vendere anche la performance, come fa Tino Sehgal ma si tratta dell’eccezione che conferma la regola. Anche le grandi installazioni sono difficili da acquistare da parte del piccolo/medio collezionismo. Ecco quindi che la pittura è un passepartout valido per tutte le tasche. Non dimentichiamoci che la pittura rappresenta il massimo dell’espressione umana e della capacità del “fare”. Va inoltre detto che i grandi curatori internazionali non hanno mai abbandonato la pittura, Laura Hoptman ha dedicato numerose mostre a Elizabeth Peyton e Tomma Abts mentre Hans Ulrich Obrist ha lungamente lodato Gerhard Richter. Senza parlare poi di Francesco Bonami che durante la biennale del 2003 organizzò una sezione intitolata Rauschenberg a Murakami. Insomma, se anche loro vedono gli Zombie, significa che siamo messi molto male.

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