Della situazione problematica del cinema italiano attuale si è più volte dibattuto senza tuttavia riuscire a trovare soluzioni “attive” che diano visibilità a tutta quella sfera cinematografica che, seppur tra mille disagi, sopravvive e in molti casi dà vita a veri e propri capolavori alla pari, parola di Enrico Ghezzi, di quella che può essere stata la produzione magnificente e magnifica di un Bernardo Bertolucci, per dirne uno.
Proprio in questo ambito si muove l’esperienza di Catherine Libert, giovane regista belga, accompagnata dalle riprese suggestive di Stefano Canapa. Il lavoro dei due si muove trasversalmente sul territorio italiano alla ricerca di quelle tracce di cinema indipendente che si configurano come esperienze vitali e non come semplici tentativi di sovversione del sistema.
“Campi ardenti” è il quarto episodio di “Vie Traverse”, road movie che ripercorre l’Italia alla ricerca di talenti cinematografici indipendenti. In questo appuntamento, a far da protagoniste, sono le esperienze cinematografiche di Beppe Gaudino e Isabella Sandri.
Catherine Libert si muove sulla scena documentaria, accompagnata da un noto “Virgilio”: Enrico Ghezzi.Il documentario si apre con i due che ripercorrono le rovine del Circo Massimo alla ricerca delle tracce di ciò che è sopravvissuto, di quelle rovine a cui ci si ancora disperatamente per sconfiggere l’esperienza dell’effimero. Ghezzi immagina di riportare personaggi illustri quali Fellini, Antonioni o il meno amato Visconti, al cospetto di tale monumentalità, loro che tanto hanno affrontato il problema della memoria e il cui tempo è finito inesorabilmente.
Tale concetto appare maggiormente declinato nell’opera di Isabella Sandri. La Libert riporta la regista veneta sulla scena del suo “Animali che attraversano la strada” (2000), film sulle periferie romane dove i “ruderi” sono questa volta rappresentati dagli edifici asettici che si stagliano, netti, in opposizione alla natura arida che li circonda. Lì, a differenza di quelle che erano le borgate Pasoliniane, l’essere umano è una presenza effimera, qualcosa che appare come un’epifania per poi inesorabilmente scomparire.
Il problema della memoria viene a delinearsi in maniera più decisa, il cinema si fa portavoce di questa necessità, ma per far ciò è costretto a ridefinirsi, a sfuggire alle logiche che pretendono sempre più di relegarlo ad un universo circoscritto. Ridefinizione ma anche contatto con chi lo circonda: la Sandri torna sulle scene del suo film e interroga i protagonisti sul motivo del loro scarso interesse per qualcosa che li riguarda direttamente e la risposta, suggestiva, è che per loro il cinema rappresenta ancora un’evasione dalla realtà appiattente e inviolabile che li tiene ancorati. «A cosa servono i vostri film se dopo non succede nulla, non cambia nulla?» si chiedono questi immobili protagonisti e questo getta un’ombra sull’inconciliabilità del rapporto arte-vita nell’epoca contemporanea.
Ancora la memoria a far da sfondo a lavoro di Beppe Gaudino, originario di Pozzuoli e fortemente legato al senso antropico delle proprie origini. Pozzuoli sorge sull’area vulcanica dei Campi ardenti ed è dunque soggetta al fenomeno del bradisismo che se normalmente avviene in tempi molto diluiti, subisce in taluni casi accelerazioni improvvise e devastanti. Questo costante senso di precarietà, spinge il regista a cercare di registrare le rovine, di congelarle attraverso la macchina da presa per recuperarne i presupposti esistenziali. «Lavoro sulla memoria che non ha il valore della memoria. […] Lo faccio guardando il paesaggio perché in esso vi è memoria, in esso nulla è casuale», dunque in questo caso la memoria assume una connotazione diversa da come siamo abituati a intenderla, è una registrazione spontanea di cui fare esperienza ogni volta.
Il documentario si chiude ancora una volta su Ghezzi che cita le parole di Mario Soldati «Ho molto amato il cinema. Per lo stile di vita. Vorrei farlo tuttora, ma vorrei che non uscisse nulla dalla macchina da presa. Amo la vita del cinema, amo la regia, ma non accetto che ci sia qualcosa da vedere. Tutto dovrebbe finire là»: segno dell’irreparabile abisso che lega l’esistenza alla ricerca del suo senso, un senso che non può che rivelarsi in brevi istanti, in un’inquadratura fissa in cui tutto avviene per poi nuovamente dissolversi.
Lina 24 Marzo 2017 il 18:28
around them, including a public service anoucnnement midway through the premiere urging parents to talk to their kids about sex, although Ms. Hampton has been quoted as saying, “I don’t have anything to say about