Motherland. La madre terra è la terra sopra cui si è nati. Talvolta la terra per la quale si lavora, assieme a cui si cresce e nella quale si costruisce, o semplicemente la terra in cui si vive e si è vissuti tutta la vita. C’è un modo pioniere di appropriarsi di un territorio e uno stanziale. Così come ci sono i segni dell’uomo negli spazi vuoti esplorati e c’è il quotidiano affollarsi (a noi ben conosciuto) e rituale della vita cittadina.
Il 28 settembre la galleria Edieuropa di Roma sotto l’egida di Fabrizio Pizzuto mette in questo caso a confronto due diverse visioni. Da un lato l’inquadratura larga, ampia, il respiro, il vuoto, l’intervento dell’uomo e i suoi segni visti dall’artista Nicola Brandt. Nel lavoro intitolato Wlotzkasbaken: A ‘Community’ in Transition infatti, i segni lavorano nella bellezza decadente di un paesaggio naturale cambiato, mutato.
Il villaggio di Wlotzkasbaken si trova al centro della Skeleton Coast in Namibia, sulla costa occidentale dell’Africa.Originariamente era una stazione di rifornimento utilizzata per lo stoccaggio di acqua e cibo da un commerciante tedesco, Paul Wlotzka. Le costruzioni si stagliano nel nulla, delimitate simbolicamente da strisce di pietre. L’ampiezza di questi spazi simboleggiava la forza e il lusso delle ristrette élite dominanti che ci si stabilirono. La ex colonia tedesca capitolò poi alle forze d’invasione del Sud Africa nel 1915. Ricordiamo che solo nel 1990 la Namibia ottenne (per ultima) l’indipendenza dal dominio coloniale. Wlotzkasbaken, cittadina quasi fantasma di pescatori è oggi minacciata da un lato dalla speculazione e dagli interessi della nuova elite, dall’altro dalla possibilità non remota di vedere presto sul suo territorio impianti chimici nocivi.
Dall’altra parte e quasi specularmente Chiara Tommasi propone tramite un lavoro fotografico e video, una visione del territorio nipponico. Nel video How the unicorn came to live il sovraffollamento cittadino è amplificato dall’inquadratura stretta, ravvicinata, presente; il pieno opposto a quello che poco prima era vuoto e assenza , o meglio presenza evocata tramite i segni.
Qui infatti l’immagine diventa la messa a fuoco di un punto intermedio: la moltitudine è il soggetto, il via vai cittadino. Il Giappone ha cambiato vita, ha quasi “dimenticato” il suo passato per lanciarsi in un nuovo stile, per essere oggi terra dai molti volti, dalla quotidianità occidentalizzata. Una vita rituale molto, troppo piena: in luoghi nevralgici le persone affollano la scena. Un convegno che nessuno ascolta e il via vai della città che si fa pulsazione essa stessa, sono lo scenario. A completare l’atmosfera una serie di foto basate sul territorio giapponese, sul suo gusto ma anche sulla sua maniera, sul senso estetico e mentale dell’oriente nipponico. Atmosfere ricche di contraddizioni dialogano in questi due lavori.