Nella Wunderkammern romana performance art, body art e poesia visiva parlano italiano attraverso una mostra che celebra due figure storiche nazionali: Tomaso Binga e Guglielmo Achille Cavellini. Personaggi, questi, che hanno saputo anticipare modalità di comunicazione e di interpretazione in vigore nella società odierna, come allude il titolo ‘Prefigure’.
Ciò che li accomuna è una ricerca basata sul concetto d’identità, mettendo ironicamente in gioco se stessi, e la data del 1971, anno di svolta per entrambi. Se Bianca Menna assume il nome maschile di Tomaso Binga in riferimento all’ambiguità dei ruoli sociali legati al sesso, non è da meno Cavellini che inizia la divulgazione della propria figura di artista nel futuro, attraverso un ambizioso programma che approderà alla celebrazione del suo centenario nel 2014, grazie alla promozione della stessa Wunderkammern. Nella galleria si attua un confronto diretto tra i due protagonisti che si suddividono, letteralmente, lo spazio dell’unica sala esponendo lavori degli anni Settanta.
A destra fa capolino la femminilità di Tomaso Binga (Salerno, 1931) al secolo Bianca Menna. Performer e artista poliedrica, è riconosciuta come una delle massime interpreti della poesia visiva, corrente artistica a tutt’oggi poco indagata a causa della sua natura sfuggente, non inseribile in una singola prassi operativa. Per l’occasione la salernitana presenta l’ inedita opera L’alfabetiere murale (1976), dove la sagoma del proprio corpo assume le sembianze di vocali e consonanti restituendo una scrittura vivente dagli infiniti significati. Nell’installazione Mater-Litanie Lauretane (1976) l’ossessivo termine MATER è utilizzato per contestare l’occultamento della fisicità, per opporsi all’astrazione, per esaltare l’imperfezione concreta della nudità del gentil sesso. Nel Dattilocodice, con cui partecipa alla Biennale di Venezia del 1978, rinnova il suo linguaggio attraverso la sovrapposizione dei segni della macchina da scrivere generando grafemi che acquistano una nuova forma. La Binga crea un nuovo idioma composto da icone sconosciute, che agisce a livello inconscio nell’astante, affermando l’autonomia sia della sua personalità sia della sua persona.
A sinistra regna, invece, la forza distruttrice e mascolina di Guglielmo Achille Cavellini (Brescia, 1914; Brescia, 1990), il quale negli anni Quaranta si affaccia nel mondo dell’arte come collezionista di opere astratte. Il suo volto da amatore sarà ritratto da famosi artisti contemporanei come Warhol, Rotella, Ceroli. Tuttavia, l’incontenibile esigenza di esprimere la sua latente creatività lo spinge ad appropriarsi di oggetti d’uso comune, di lavori di altri e dei propri per trasformarli o distruggerli. Nascono, quindi, i Carboni (1968-1971), dove bruciare significa purificarsi, e le coloratissime Cassette che contengono opere (1966-1968), in cui si cimenta nella pratica della citazione-appropriazione. Realizza la Pagina dell’Enciclopedia con l’intento di scrivere la sua biografia fino a enfatizzare il culto di se stesso. La stesura, redatta a mano tramite una grafia così fitta da scoraggiare anche il lettore più motivato, inizialmente occupa un semplice foglio per poi invadere ogni superficie che incontra (oggetti, muri, abiti). Cavellini attua, così, uno spostamento semantico: dalla parola in quanto discorso a una scrittura intesa come segno iconico che nasconde più accezioni, fino a farsi evento.
Durante il vernissage, il celebre Tight azzurro (1974) è stato indossato da un giovane attore romano che, nei ‘panni’ del bresciano, ha fatto rivivere il suo graffiante spirito performativo. Mentre il vestito scritto acquisisce la connotazione di opera a se stante, colui che lo infila è ridotto a soggetto biografico e poetico che esegue l’esibizione. Un’azione, questa, che si riallaccia al progetto di ‘Autostoricizzazione’, avviato con lo scopo di segnalare la deformazione di un sistema usurpato da invidie e chiusure invalicabili. Ricorrente nei suoi manifesti, creati per essere esposti nei musei di tutto il mondo, è l’idea di ‘centenario’ dove Gugliemo Achille Cavellini da singola entità si trasforma in un marchio riconoscibile: GAC. Nascono, quindi, timbri e adesivi pensati come estensione fisica del suo ego inteso come individuo autonomo e riproducibile. Un’operazione che, se da una parte nega la durata dell’opera, dall’altra sottolinea l’innovativo concetto secondo cui l’arte è comunicazione tra chi opera e chi osserva, ponendo sullo stesso piano artista e fruitore.
Foto courtesy: Marco Minna e Wunderkammern