Ci devo lavorare su questo. Sono uscita dal PAC di Milano con un senso di nausea, Marina Abramovic ha promesso il tempo dell’esperienza e io mi ritrovo con irritazione e irriquietezza. Cosa è andato storto?
Se cercate su Twitter #abramovicmethod trovate i commenti di chi ha vissuto in prima persona il metodo di Marina: entusiasti e privi di un contenuto che vada oltre l’entusiasmo di essersi sentiti parte di un qualcosa che ha valore sociale. Io filosofia l’ho studiata solo alle superiori, ma so che ci siamo già passati, il pensiero umano è capace di superare l’io, questa performance invece riporta ogni pensiero ad una forma di egocentrismo che mi inquieta. Cavie di laboratorio e anche un po’ esibizionisti. Il mio è un problema di fiducia, sia chiaro, e faccio anche un po’ fatica a scriverne pubblicamente, ma Marina ha detto che la cosa migliore è scrivere di quello che si sperimenta in prima persona. Ha anche detto, nel suo italiano spigoloso, che se gli diamo il nostro tempo lei ci da l’esperienza, se non gli diamo il nostro tempo non c’è nulla in cambio. Mi sembra corretto.
Non vorrei rovinare la sorpresa ai pochi fortunati che hanno prenotato per partecipare proprio nei giorni in cui Marina presiederà la performance collettiva, hanno pagato 30 euro a testa per esserci, loro si che hanno fiducia e quindi continuate a leggere a vostro rischio e pericolo. Che seppur è vero che all’interno del PAC trovano spazio anche una serie di video-repertorio ben curate delle performance che hanno portato l’Abramovic nell’olimpo degli artisti, alla fine è da settimane che si vocifera attorno al metodo, a cosa succederà e dove andremo e chi siamo. E quindi questo vi spiego.
La performance a cui il pubblico si concede è molto semplice da spiegare, da vivere non ugualmente. Dopo aver firmato un contratto in cui ci si impegna a non abbandonare il luogo prima della fine degli esercizi, si abbandonano le proprie spoglie tecnologiche per indossare un camice bianco da laboratorio. A questo punto chi dirige la performance condurrà i partecipanti alla riscoperta di se stessi, prima con esercizi di riscaldamento e risveglio muscolare e sensoriale, poi nelle postazioni di lavoro. Le posizioni sono tre: in piedi, seduto o sdraiato, si sperimentano tutte a rotazione. Le “installazioni interattive” accolgono porzioni di cristalli (quarzo, ametista e tormalina) o magneti, che aiuteranno nella meditazione. Alla fine del percorso in cambio del tempo e della fiducia donata si riceverà un attestato. Durante tutto questo periodo un gruppo non definito di persone vi osserverà come cavie, ci sono grossi canocchiali apposta sulla balconata.
Ed è quanto Marina ha raccontato dell’attestato come souvenir dell’esperienza mi è venuto come un prurito. Che è continuato quando concludendo la presentazione ha detto che l’arte non dev’essere commerciale e che l’artista deve portare dei valori nella società e prevedere il futuro. Sulla questione del futuro sono d’accordo, ma la parte prima è troppo naive anche per me.
Eppure lei, Marina Abramovic, mentre racconta di questo nuovo progetto è seria e motivata. Ci tiene a lavorare tanto e bene, ha manie di controllo, lo ammette mentre corregge la traduttrice in italiano. Contemporaneamente alla mostra al PAC inaugura una mostra da Lia Rumma, galleria privata, tiene una lezione al Teatro dal Verme il 21 marzo e il film basato sulla sua performance al Moma di New York, The artisti is present, verrà proiettato all’Apollo spazioCinema il 22. Tutto per amore della chiarezza, continua a ripetere che l’importante è capire cos’è la performance art, perché ancora oggi è un concetto poco compreso.
E mentre racconta di come dopo l’esperienza del Moma il suo rapporto con la performance si è trasformato; e di come ha capito che il pubblico va istruito su come essere partecipante e non voyeur rispetto l’arte, perché nessuno insegna ad essere pubblico; e di come oggi ci è stato rubato il tempo dalla tecnologia perché va tutto troppo in fretta e non esiste più l’attesa. Ecco mentre dice queste cose sono con lei, ho fiducia in lei e le credo, poi mi perdo nella pratica, ma lo dicevano sempre i miei professori che sarei brava se mi impegnassi. Mi hanno segnata.
La sua ossessione per la legacy, l’eredità di un artista, è encomiabile. Forse non andrò a New York per dormire in pubblico nel suo prossimo Istituto per la Performance art, ma continuerò a seguire il suo lavoro e pian piano smusserò i miei spigoli fino ad accogliere il metodo. Ci devo lavorare ancora su questo.