In questa occasione verranno esposte due serie di opere su carta di due protagonisti dell’Arte Povera. Le 14 tavole che compongono il ciclo Da un erbario raccolto nel 1979 in Woga-Woga, Australia, realizzato da Merz nel 1989, accostano a diversi esemplari di foglie di piante (su cui l’artista interviene come suo solito con lo scotch) la numerazione tipica della successione di Fibonacci.
Le Trentatré erbe di Penone, anch’esse datate 1989, sono invece il risultato di un’azione di frottage con risvolti intensamente lirici. Le 33 opere verranno esposte una al giorno, come se fossero fogli di una sorta di calendario poetico incentrato sul rapporto tra uomo e natura. In galleria saranno presenti anche altri due lavori di Merz: una Salamandra e un Fagiolo, entrambi realizzati nell’89 su carta da lucido in cassetta di ferro.
La mostra a cura di Roberto Borghi sarà il primo di due appuntamenti da Maria Cilena con i protagonisti della stagione artistica degli anni Sessanta e Settanta. Il secondo rendez-vous si terrà dal 21 settembre al 26 ottobre e coinvolgerà Claudio Parmiggiani e Pier Paolo Calzolari. La galleria sarà chiusa dal 20 luglio e riaprirà il 4 settembre.
Di sé Mario Merz (Milano 1925 – Torino 2003) ha scritto: «Io sono il ragazzo che andava nei campi sperando di poter portare a casa un disegno senza dover imitare il paesaggio dell’Ottocento. Il ragazzo che disegnava le sensazioni della natura». Le 14 tavole dell’Erbario raccolto nel 1979 in Woga-Woga, Australia sono alcuni dei suoi numerosi lavori che «disegnano le sensazioni della natura» senza ricorrere a formule espressive di matrice ottocentesca. Nel suo rapporto con la dimensione organica infatti Merz si è spinto molto più indietro nel tempo, e allo stesso tempo molto più avanti: la ricerca sugli animali primitivi (tra i quali appunto La salamandra) che ha condotto negli anni Ottanta è stata il suo modo di essere assolutamente moderno, il suo tentativo di individuare una modernità paradossale, che affondasse le radici alle origini del mondo. Analogamente le foglie effigiate nell’Erbario, per le loro forme primordiali e per l’accostamento a una sorta di archetipo matematico qual è la successione di Fibonacci, sono esempi di un arcaismo ibridato con la scienza: un connubio di arte, botanica, aritmetica e antropologia che insolitamente ha poco di cerebrale, ed è comunque dotato di una spiccata eleganza formale.
Nel lavoro di Giuseppe Penone (Garessio, Cuneo, 1947) l’impronta dell’uomo sulla natura ha un ruolo fondamentale. Ma anche la traccia che la natura stessa può lasciare nei ricordi e nell’identità delle persone, in una sorta di osmosi tra sensibilità che accomuna la condizione umana a quella vegetale. Le Trentatré erbe realizzate a frottage sono testimonianze della reciprocità dell’impronta: sono calchi di erbe reali, sulle quali ha agito la mano dell’artista, ma sono anche immagini-ricordo, appunti di emozioni generate da particolari specie di piante, testimonianze di un rapporto fluido tra memoria e sensorialità.