Cominciare un articolo non è mai cosa semplice, specialmente quando l’oggetto di questo è il lavoro di un grande fenomeno quale quello romano Rezza-Mastrella di cui si è parlato in innumerevoli occasioni ma di cui fortunatamente, come faceva presente il da poco scomparso critico Franco Quadri, la portata rivoluzionaria sembra non esaurirsi.
Il climax è sempre il medesimo: Antonio Rezza con la sua spietata e perversa ironia, con il gioco di personificazioni, con l’avvicendarsi di situazioni psicologicamente asfissianti e con il proiettarsi all’esterno, rompendo le barrire interpersonali che separano lo spazio tra teatro e vita in un continuo entrare e uscire dal perimetro della forma. Poi c’è Flavia Mastrella, che la forma la mette in scena, realizza costumi, scenografie, costumi che diventano scenografie sotto l’inarrestabile carica esplosiva di Rezza. Più volte l’autore ha dichiarato di prendere spunto proprio dal lavoro della sua collaboratrice per dar vita agli spettacoli e ogni volta, all’interno dello spettacolo stesso, non perde occasione per dimostrarci come niente sarebbe possibile senza l’artificio della creazione artistica.
Fratto X, come il titolo stesso evoca, è uno spettacolo esistenziale, sull’uomo schiacciato dall’esperienza del vivere nella società stratificata.
Con un’immagine di grande immediatezza Rezza paragona l’uomo disteso su un letto ad un’equazione la cui incognita sembra annichilire l’uomo annullandone l’esperienza individuale. Lo spettacolo si apre all’insegna della solitudine, con un uomo che cerca Mario, cerca sé stesso, ma di quest’ultimo ha solo un’immagine data dal suo proiettarsi nella società. Tale ricongiungimento appare ancora più improbabile nella scena successiva dove l’attore si frammenta, come una lastra di vetro, generando innumerevoli scheggie di personalità, Rocco, Rita, la sorella di Rita, tutte in fondo indistinguibili se non attraverso attributi artificiali.
Di Felliniana memoria, e di straordinaria ingegnosità creativa, appare la scena in cui attraverso due teli incrociati l’artista incarna un enorme corpo femminile, ancestralmente allusivo a quel senso nostalgico del ritorno ad una dimensione originaria (“ma esiste ancora la spensieratezza?” – farà recitare più tardi Rezza ad uno dei suo personaggi) che è oggi causa di inappagabile frustrazione. Non mancano i riferimenti espliciti alla religione, altra grande entità femminile(?) in cui Rezza incarna il sentimento della castrazione individuale.
Ed infine il gioco squisito del doppiaggio, una coppia che analizza la propria crisi attraverso la voce di uno solo dei partner, l’altro avverte la sensazione che qualcosa avvenga fuori dal suo controllo ma non è in grado di capire bene di cosa si tratti, amara immagine della mercificazione del quotidiano che mutila qualsiasi esperienza istintuale.
Finale come sempre turbolento, con l’artista che sceglie le sue “vittime sacrificali” tra il pubblico in sala e le sottopone ludicamente all’umiliazione, con espedienti tanto semplici quanto disarmanti. Mensione speciale anche per Ivan Bellavista, che in più di una scena accompagna e asseconda i deliri di Rezza con grande capacità performativa.
Anche questa volta il connubio Rezza-Mastrella ci offre la possibilità di partecipare a qualcosa di unico nel suo genere, dove schizofrenia e creazione artistica sembrano proporsi come unica via d’uscita (o d’entrata).
Lo spettacolo sarà in scena ogni sera fino al 6 gennaio al teatro Vascello di Roma, la sottoscritta spera di aver contribuito a farvi venire voglia di andare a vederlo!