Dopo un secolo come quello passato che ha visto nascere avanguardie e sperimentazioni artistiche di ogni sorta, ci troviamo oggi con il fiato corto, sfiancati forse dalle troppe tecnologie che concedono a tutti infinite possibilità e non pongono limiti da superare. La colpa di questa atonia generale è attribuibile anche ad un sistema dell’arte che troppo spesso mira a far emergere il curriculum dei giovani artisti piuttosto che la loro visione creativa. Del resto bloccati come siamo in polemiche inutili, balletti per le poltrone dei musei e lotte per un tozzo di pane ci ritroviamo ad assistere passivamente ad una creatività caratterizzata dall’eterno ritorno del Pop, dell’Arte Concettuale e di una certa estetica noiosa ma condivisa che predilige l’equivoco e l’androgino, proponendo l’illusione del mistero e manifestando invece il trionfo del pretesto e della banalità.
In Italia non riusciamo a renderci conto che forse abbiamo lasciato per strada spontaneità ed irruenza, aggressività e drammaticità, ironia e gusto, in sostanza abbiamo totalmente perso la bussola ed il campo base è ancora lontano. Per fare un esempio di questa confusione imperante, giusto qualche anno or sono la nazione ha celebrato in lungo ed in largo il centenario del Futurismo, sbandierandone gli intenti anche nel Padiglione Italia della Biennale di Venezia. Ebbene ad esser sinceri del Futurismo non se ne è vista nemmeno l’ombra, nulla in grado di cogliere una seppur minima scintilla di tale movimento che ha positivamente infettato arti visive, letteratura e teatro, fino a gettare le basi della musica elettronica con Luigi Russolo. Futurismo, quindi, oggi significa logiche di mercato, omologazione e istituzionalizzazione, sarebbe a dire il contrario di ciò che le radici del movimento un tempo si erano riproposte di combattere. Futurismo è una parola vuota, un’espressione sostituibile a proprio piacimento con Mamma, Papà, pappa. Anche la critica, un tempo valido strumento di confronto, non può più far nulla dal momento che se si giudica male una determinata mostra o manifestazione si viene attaccati da tutto il sistema mentre se si esprimono giudizi positivi si viene tacciati di clientelismo o quanto altro ma in generale tutto è bello e tutto ci piace.
Ed allora il nostro sistema artistico ruota così come una sfera dove all’interno vivono gallerie, musei, artisti ed esperti del settore totalmente alienati dal contesto internazionale. La sfera è un insieme costituito da sottoinsiemi che non comunicano fra loro e neanche vogliono sfiorarsi. Al di fuori della sfera sopravvive a stento la grande maggioranza delle gallerie che non sono alla moda, gli artisti che non hanno una galleria ed altri personaggi che vorrebbero divenir addetti ai lavori. Questi elementi cercano di entrare nelle grazie di coloro che vivono all’interno della sfera, dileggiandoli e disprezzandoli allo stesso tempo.
Le istituzioni museali che dovrebbero ordinare il caos di questa situazione cedono invece al volere dei potenti dealers privati e delle cordate politiche, esponendo artisti preconfezionati che guadagnano così prestigio e quotazioni salvo poi ripiombare nel completo anonimato quando cambiano regole con infauste ripercussioni per chi aveva collezionato le loro opere. A chiudere lo scenario una serie interminabile di forum, dibattiti e conferenze sulla situazione dell’arte in Italia che puntualmente sciorina delle idee vuote e degli slogan propagandistici di bassa lega e comunque totalmente inutili.
Ovviamente ci sono molte eccezioni, esistono talentuosi artisti, visionarie gallerie, piccoli ma prestigiosi musei ed addetti ai lavori illuminati. Per questo chi scrive continua ancora a credere in questo paese, a sperare che forse un giorno la famosa sfera possa finalmente allargarsi riuscendo mettere in comunicazione fra loro i propri sottoinsiemi. Chi scrive spera ancora nel sostegno alla giovane arte, nelle critiche costruttive e nel confronto acceso piuttosto che nei livori e nelle offese. Infine, chi scrive spera che il nostro paese torni prepotentemente sulla scena dell’arte internazionale. Perchè non dobbiamo convincerci che il detto popolare “chi di speranza vive disperato muore” sia la nostra regola fissa.
Micol Di Veroli