Fuori piove. La pioggia ad agosto è spiazzante, un po’ come quegli anni chiamati anni Cinquanta e Sessanta, così lontani, eppure sono appena finiti. Affascinanti e irresistibili. C’erano Elvis e la pubblicità, la Coca-cola, i divi di Hollywood e la gioventù bruciata di James Dean. C’erano le curve di Marilyn e la polvere sotto gli stivali di Gary Cooper, i locali clandestini in cui suonavano il jazz e le casalinghe con le gonne a ruota dai colori pastello.
Gli anni ’50 sono un miraggio di buongusto ed eleganza, magari certo erano anni un po’ ingessati, un po’ bigotti, ma così esteticamente appaganti, confortanti a vederli oggi, in fotografia.
Phil Stern ne ha colto tutta l’essenza, avendo la possibilità di spiare, come freelance, i retroscena di Hollywood e della sua fauna. Stern, oggi novantenne, è stato spettatore attento a tal punto da essere sempre nel posto giusto, al momento giusto. I suo scatti colgono l’essenziale: un’espressione, un gesto, un elemento che da soli raccontano il tutto. Sembrano quasi pose spontanee quelle in cui ha immortalato tutti i grandi, da Alfred Hitchcock a Tony Curtis, da Andy Warhol a Sophia Loren. Potrete ammirare l’armonia familiare delle dive Anita Eckberg e Audrey Hepburn e spiare i grandi del jazz, come Bing Crosby e Sammy Davis Jr, scherzare tra loro nel camerino; e poi i momenti di riposo tra un ciak e l’altro per Burt Lancaster o Humphrey Bogart; James Dean nel famosissimo scatto per Life con il volto coperto dal dolcevita o ancora una Marylin Monroe sorridente ad un party.
È come essere catapultati sulla scena, come se potessimo vivere quei momenti magici, tutto grazie a quell’espressione, quel gesto, quell’elemento che Phil Stern imprime sul suo rullino, quel senso di spontaneità che rende così umani, così veri, quei volti e con loro quegli anni.
Dall’altra parte del muro, il rovescio della medaglia: Erwin Olaf usa le atmosfere e gli stereotipi della cultura americana di quegli anni per tessere una trama decisamente più cupa, riflessiva e totalmente insinuante. I suo scatti sono capolavori di finzione: scenografie studiate alla perfezione, ricercando dettagli sofisticati e luci perfette, studiate per ricreare quell’atmosfera sospesa e nitida, nonostante i chiaro-scuri imperanti. Tutto per arrivare ad un’immagine che, nella sua irrealtà, sembra quasi tridimensionale, sembra uscire dal plexiglas che la trattiene.
Allo Spazio Forma di Milano vengono presentate per la prima volta le serie più recenti: Rain, Hope, Grief, Fall, Dawn e Dusk e Hotel.
In Grief, o Hotel, quasi mai i modelli guardano in camera, quei volti defilati, a tre quarti, con i lineamenti tirati, sembra che piangano e non puoi fare a meno di interrogarti: “Chissà cosa gli è successo…”. Con Hotel ci si immerge in un film noir, mentre con Hope ci ritroviamo nella ridente suburbia di una qualsiasi città: tra casalinghe e boyscout. Così il filo conduttore diventa: una domanda incessante, una risposta mancata e una storia inventata. Chissà cosa pensano, cosa stanno provando, qual è la prossima azione, in quell’essere sospesi nella luce, o nella sua essenza, con la coda dell’occhio sarete sicuri di averli visti muovere e un velata inquietudine vi pervaderà.
L’affascinante tridimensionalità delle serie di Olaf e la coinvolgente dolcezza degli scatti ribati di Stern conducono lontano, mentre fuori piove, mi godo le mie vacanze d’agosto.