Il 3 settembre in occasione della 12 Biennale di Architettura di Venezia, Jarach Gallery e Galleria Pack inaugurano The Belly of an Architect, progetto congiunto in cui si presenta una selezione di circa 20 opere dei migliori artisti di entrambe le gallerie che indagano il tema dell’architettura come punto d’incontro. La mostra è a cura di Martina Cavalarin.
Il titolo, ripreso dalla pellicola di Peter Greenaway,The Belly of an Architect – proiettato durante la mostra – indica appunto l’approccio attraverso cui gli artisti che indagano il tema dell’architettura, entrano nelle viscere dei luoghi e dei non-luoghi, delle geografie e delle storie dell’anima e del corpo. Se i muri degli edifici rappresentano lo scheletro dell’uomo, il file rouge della mostra è interpretato attraverso riservate assenze o oniriche presenze, proiezioni autoriflessive o architetture post-industriali, luoghi claustrofobici e paesaggi oscuri, ombre e rifugi, palazzi luminescenti e boscaglie incantevoli e sfuggenti, cattedrali magiche e stanze fatiscenti.Abbandono, pericolo, suggestione, bellezza, decadenza e splendore si intrecciano continuamente tra fotografie e video che raccontano storie di contaminazioni ossessive ed intermittenti sulla soglia di differenti pratiche artistiche.
Matteo Basile’ (Roma, 1974) usa la materia elettronica per una profonda indagine sull’umanità contemporanea. Il racconto di Basile’ profondamente imbevuto della tradizione pittorica barocca si concentra su icone figurative – siano esse umane o architettoniche – dove l’elettronica aggiunge elementi, modifica colori, crea panorami immaginari. Peter Belyi (Leningrado, 1971) In My Neighbourhood, attraverso l’utilizzo di decine di diapositive degli anni settanta, ricrea le maquette di interi quartieri popolari della Russia sovietica in cui le vite degli abitanti appaiono enormemente distanti tra loro.
Robert Gligorov (Macedonia, 1959) gioca sul concetto di dio-architetto di tradizione massonica ultizzando se stesso come modello per un dittico in cui il “terzo occhio” e’ sovrapposto all’occhio umano, anziche’ situarsi al centro della figura. Le immagini di Claudio Gobbi (Ancona, 1971) danno luogo a composizioni impeccabili nelle linee e nei piani, nelle luci e nei cromatismi, con una predilezione per le simmetrie. In tal modo altera la percezione del reale, e contemporaneamente instaura un discorso oggettivo che porta alla riflessione sulla nostra storia e memoria collettiva.
Guido Guidi (Cesena, 1941) da molti anni porta avanti una ricerca sulle diverse qualità della luce che riesce magistralmente a declinare per immagini. Utilizza soggetti comuni come strade, piccoli edifici, particolari architettonici, che diventano nel suo obbiettivo pretesti per una rappresentazione interiore del vedere quotidiano. Il lavoro di Teodoro Lupo (Treviso, 1975) si concentra da tempo sul tema della visione nelle sue ramificazioni piu’ estreme. Dopo aver sviluppato la tematica della percezione in carenza di luce, analizzando l’effetto disorientante della notte e del buio, ora si concentra sull’analisi dello straniamento visivo provocato dalle le situazioni di luce abbacinante.
Il duo Masbedo (Nicolo’ Massazza, Milano, 1973 – e Jacopo Bedogni, La Spezia, 1970) conduce una ricerca intorno alla narrazione cinematografica attraverso le nuove tecnologie. I loro lavori si diffondono a partire da una narrazione intensa ed emotiva, portando in profondità la soggettività dei personaggi. Immagini sofisticate ed elaborate conferiscono un senso di precisione meticolosa che suscita il coinvolgimento emozionale dello spettatore. Marco Neri (Forli’, 1968) da sempre indaga temi legati alla costruzione e alla decostruzione dei concetti filosofici e architettonici. Tinte piatte, impersonali che trascendono dall’uomo – di fatto quasi sempre assente nei suoi lavori – e ne relegano la presenza nell’immaginazione dello spettatore.
La ricerca recente di Marina Paris (Ancona, 1965) si centra su quelli che comunemente vengono definiti “non luoghi”; comuni spazi di attraversamento come scuole, ospedali, stazioni, sale d’aspetto e corridoi che sono radicati nella memoria collettiva e alla relazione che questi stabiliscono con l’uomo.
Una sorta di inquietante standardizzazione che fa perdere loro le specifiche identità e annebbiare i caratteri delle consuete funzionalità d’uso; rivelando cosi’ il loro carattere disciplinare, di controllo e una natura fortemente claustrofobica. Giuseppe Pietroniro (Toronto, 1968) L’oggetto delle riflessioni dell’artista e’ solitamente il luogo, lo spazio, inteso sia come margine che come ambiente periferico, all’interno del quale prende forma l’esistenza umana, un’esistenza talvolta giocosa, ironica, che si esplica attraverso modalità complesse. Nonostante siano dichiaratamente abbandonati, gli ambienti di Pietroniro lasciano intendere sempre la presenza umana.
Robert Polidori (Montreal, 1951) racconta per immagini grandi tragedie, come quella di New Orleans, o la piu’ famosa Chernobyl per lasciare da esperto reporter qual e’ una memoria storica tangibile di avvenimenti che hanno inevitabilmente segnato la storia dell’umanità. La fotografia di Claudia Pozzoli (Lecco, 1981) si distingue per l’estrema ricercatezza tecnica e formale delle sue immagini. La sua e’ una indagine volta a ridurre gli elementi ai minimi termini fino a farli quasi del tutto scomparire; un metodo che la induce a sottrarre per arrivare al nucleo dell'”essenziale”, quasi a voler imprimere alla pellicola la chiara descrizione della sua interiorità.
Martina della Valle (Firenze, 1981) utilizza la tecnica fotografica come strumento per oltrepassare la superficie delle cose, per arrivare oltre, fino a coglierne il contenuto.
Il suo punto di vista sulla realtà e’ molto soggettivo e emozionale e il tempo come variabile gioca sempre un ruolo centrale. Di base a New York, Alessandro Zuek Simonetti (Bassano del Grappa, 1977) sta sviluppando un proprio linguaggio fotografico che riflette il suo profondo interesse per le culture giovanili di nicchia. Molto spesso ciascun progetto si estende al di là del mezzo fotografico che si rivela come un segno della sua maturazione come artista.