Si presenta con l’intento di sostenere la produzione artistica italiana sul piano critico, scientifico e storico, facendola conoscere internazionalmente. Ma già la sera dell’apertura si intuisce che siamo lontani dal poter sostenere un discorso del genere. Il curatore Marco Meneguzzo apre il testo critico con un: “La scultura lingua nuova” volendo smentire la cupa profezia”Scultura lingua morta” fatta da Arturo Martini nel 1945. E su questo non lo contraddico, anzi. Credo proprio che la scultura possa essere uno dei linguaggi più attuali, in fondo cosa più della materia stessa può descrivere un mondo materiale?
E non contraddico Meneguzzo neppure quando spiega il salto evolutivo della scultura rispetto al secolo scorso: “Nel XX secolo l’omogeneità disciplinare aveva ancora il colore e la consistenza del bronzo e del marmo, e ciò che vi si discostava appariva ancora come un succedaneo, un’imitazione di quelli; oggi, la presenza di quei materiali in una mostra, che è prima di tutto coloratissima e “morbida”, assume immediatamente i connotati della citazione”. Partendo da ciò che è ovvio, il materiale ed il colore, sviluppa un percorso in cui si incontrano ottanta artisti: tutti italiani, tutti nati dopo il 1950.
Una mostra che si fa portatrice di problematiche complesse, una su tutte la mancanza di budget. La Fondazione infatti ad oggi possiede solo la metà del denaro necessario per restare aperta, come potrebbe sostenere l’organizzazione di una mostra? Solo grazie ad un lavoro al risparmio: artisti, galleristi, collezionisti si sono fatti carico delle spese di trasporto delle opere pur di permettere allo Spazio di festeggiare i suoi cinque anni d’apertura.
Ma il sentimentalismo non salverà questa esposizione che si mostra poi, nei fatti, come quella che è: una fiera senz’anima. Gli spunti non mancano, e senza riferirsi per forza al cavallo incastonato nel muro di Cattelan (che a Punta della Dogana emanava decisamente più fascino), molto meglio l’uccellino incastrato di Vedova Mazzei. Così piccolo e nascosto, veniva voglia di arrampicarsi e tirarlo via da lì, così fragile da sembrare intrappolato in quello spazio enorme. È la fiera dei materiali semplici ed economici, ed è un bene visti i tempi che corrono. Come il cubo di coriandoli di Lara Favaretto, vibrante nella sua perfetta fissità, o la carta arrotolata di Stefano Arienti.
Sorprendente Flavio Favelli, che svela una doppia natura dell’opera, come fosse una scatola cinese; ipnotico Arcangelo Sassolino con il suo cubo di plastica respirante. Innumerevoli i riferimenti all’uomo con la sua fisicità, come il beffardo gioco tra Hitler e Mao di Gehard Demetz o l’opera di Adrian Paci che apre l’esposizione. Il suo uomo è piegato sotto il peso di un tetto, quasi a simboleggiare la fatica dell’artista nel mondo, ma forse anche quella di esporre in certi contesti. Da apprezzare la malleabilità del concetto di scultura, intesa anche come spazio e tempo. Come per le luci di Carlo Bernardini, la cui matericità è minima eppure bloccano il passo.
La ridondanza di opere, davvero troppe, e un allestimento che sembra casuale non aiutano la cernita per cui sicuramente ho scordato di nominare altri autori meritevoli. La qualità c’è, ma è nascosta. Come nascoste sono le didascalie che si deve fare una caccia al tesoro per trovarle nascoste tra le travi, e anche una volta che le hai sotto gli occhi devi capire a cosa si riferiscono.
In conclusione questa mostra è un peccato, ma un miracolo allo stesso tempo. Armatevi di pazienza e amore per l’arte che mettere alla prova il proprio spirito critico non fa mai male, male che vada ne parlerete all’ora del tè con le amiche scuotendo la testa sulla tremenda situazione dell’arte in Italia.