Il cuore è uno specchio ustorio; a volte noi siamo il fuoco dell’altrui specchio e altre volte per alcuni siamo la superficie riflettente. È, questa, una delle verità smarrite nell’eterna stagione di crudeltà che è la fanciullezza, secondo Zaelia Bishop (Roma, 1977). Sulle friabili fondamenta di una stagione votata alla breve seduzione di una fiamma si costruiscono le immaginifiche architetture della ricerca dell’artista, popolate di nodi di storie e perturbazioni di personaggi, osservati nelle sbiaditure di un immobile travaglio.
Un tentativo di tradire narrazioni, biografie reali o fittizie, nostalgie di martirio e ambizioni orlate di affilata necessità è arroccato fra le rovine che si aggregano nella mostra Il Terzo Inverno. Brevi racconti sul naufragio di Zaelia Bishop, a cura di Francesco Paolo Del Re, che inaugura il 17 febbraio a partire dalle ore 19.00 ed è ospitata dal 18 febbraio al 14 aprile negli spazi della Galleria Ingresso Pericoloso di Roma.
Il Terzo Inverno. Brevi racconti sul naufragio è la terza personale dell’artista romano, la terza tappa espositiva del progetto dei Diari dal Dedalo. I temi che permeano tutto il corpo del lavoro di Zaelia Bihop sono il tempo inesorabile, che preserva disseminando e poi logora, e il senso della perdita irrimediabile a esso connesso. Quindi il dolore, la morte, la preparazione e l’elaborazione del lutto di chi sa di andare perdendo, ogni istante, una parte della propria memoria. Il vagheggiamento della dissipazione impedisce ogni presunzione di narrazione: il mondo di Zaelia Bishop non ammette la possibilità di un ordine narrativo, costruito su idee di progresso e di progetto. È, il suo, un lavoro sulla distruzione della narrazione e sui ripetuti tentativi, troppo umani e per questo eroici, di ricomporre immagini, ripensare storie, interrogando memorie rizomatiche, sensi divergenti, linee di accrescimento irregolari, assemblage impossibili, trasmutazioni, ibridazioni, metamorfosi.
Il tempo è quello sospeso di una stagione d’artificio, sublimazione dell’inverno di ogni adolescenza, stagione triplicata di prigionia, di febbre, stagione smagrita di esilio obbligato e volontario. La fanciullezza è, dunque, zona di transito e insieme ipotesi di tempo smemorato, palestra di amabili crudeltà e serra di fiori sradicati. La perdita è quella traboccante della dépense di Georges Bataille, delle costruzioni suntuarie che accompagnano i rituali di passaggio e di rigenerazione, i quali sono sempre esercizi di un’economia dello spreco, al di là del calcolo dell’utile.
Tre le soste del pensiero a cui la mostra invita, con interventi installativi che legano le singole opere in una wunderkammer abitabile. Nella prima sala, una serie di ritratti di Naufraghi, nati dall’incontro tra fotografie d’epoca e concrezioni materiche, si specchia nei resti carbonizzati dei ricordi frantumati dei protagonisti. La seconda sala è occupata da tre altari ispirati al mito dei funerali di Antinoo, cui fa eco alle pareti una sequenza di Scatole della Maledizione, assemblaggi di elementi disparati nel tentativo di annotare, in punta di ossimori, pulviscolo di storie senza segni di interpunzione. L’ultima sala trafigge una galassia di ambizioni con unghie bruciate di pastelli: lo spettatore, dopo il passaggio del fuoco, si trova immerso in un geode di pareti irte di artigli, dentatura necessaria alla lacerazione dell’involucro dell’adolescenza nella direzione imprecisata di un passaggio di stato e di condizione, senza punti cardinali per cartografare un altrove.
Dalla mitologia classica alla tensione del Waldgänger di Ernst Jünger, dalla favolistica incantata ai genocidi novecenteschi, dalle menzogne di Giorgio Manganelli alla fine della Storia, Zaelia Bishop addensa simboli e suggestioni di un immaginario negativo, nero, umbratile, che addiziona rovelli per sottrarre le superficiali rotondità del senso comune. Echeggiando il richiamo di una costellazione di segni oscillanti tra l’abisso del naufragio e la propulsione irrisolta della vampa dell’incendio, la sfida dell’artista-avversario è racchiusa, come un seme fossilizzato, nell’invito rivolto al visitatore a frugare oltre la scorza delle cose, oltre il facile gioco della contentezza delle forme dell’universo ordinato.
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