Five Easy Pieces è un progetto espositivo il cui titolo è ispirato all’omonimo film del 1970 di Bob Rafelson in cui, in una scena memorabile, Jack Nicholson suona al pianoforte ‘cinque pezzi facili’ di Chopin. Pensato per il Project Space della Galleria Franco Noero di Torino, il progetto si articola in cinque mostre collettive affidate ad altrettanti curatori che sceglieranno i ‘cinque pezzi facili’, cinque opere di cinque artisti, su un tema ogni volta differente.
Il secondo appuntamento ( in visione dal dal 24/2/2011 al 2/4/2011) è curato da Vincenzo de Bellis: “Quando mi hanno invitato a pensare una mostra correlata a Five Easy Pieces, ho iniziato a chiedermi cosa avrei potuto fare. È infatti la prima volta che vengo invitato a dare forma a qualcosa che, in un certo qual modo, è già stata decisa da qualcun altro. Ho pensato che questo fosse un gran bel titolo, e che fosse possibile approcciare il tema in molti modi diversi per poter esporre le mie posizioni curatoriali, il mio punto di vista, il mio pensiero. Poi pero’ ho visto e rivisto il film da cui il titolo e’ tratto. Nella scena centrale il protagonista Robert Dupea (Jack Nicholson) si trova in compagnia di Catherine Van Ost (Susan Anspach), un’attraente studentessa di musica classica la quale è a conoscenza del fatto che Robert è stato un tempo un talentuoso pianista. Catherine gli chiede quindi di suonare per lei. Seppur controvoglia Robert si siede al piano e suona un breve pezzo: Il Preludio in Mi minore (op.28 n.4) di Frédéric Chopin. Lei si commuove e gli chiede che cosa ha provato, e lui risponde che non ha provato nulla. A questo punto lei si incuriosisce e gli chiede perché. Robert le risponde: «Ho scelto il pezzo più facile a cui potessi pensare. L’ho suonato per la prima volta quando avevo 8 anni, e lo suonavo meglio allora».
Tutto il film è qui, in queste poche battute, nel loro cinismo e nel loro nichilismo. La mostra nasce dallo stesso assunto, dal non poter rispondere all’invito fattomi in altro modo se non “scegliendo” di presentare, letteralmente, i cinque pezzi più facili a cui potessi pensare. Le opere in mostra, pertanto, sono realizzate da artisti le cui pratiche hanno poco o quasi nulla in comune e non sono state scelte per le loro possibili relazioni. Certo, da un punto di vista retrospettivo, esse sembrano condividere una sorta di piacere nell’utilizzo di una certa economia di materiali e mezzi utilizzati, un senso di understatement. In tutte il senso di ‘facile’ non si accosta a quello di ‘semplice’, ma piuttosto all’idea di agire contro la complessità delle cose attraverso la discrezione del gesto artistico, e allo stesso tempo l’idea di ‘pezzo’ sembra rappresentare per tutte la capacità di un’opera d’arte di essere autosufficiente ed esattamente un ‘pezzo finito’.
Certo ci sono echi e risonanze tra il modo giocoso e allo stesso tempo nostalgico che Mario Garcia Torres usa nel trattare l’arte concettuale, svelandone le potenzialità narrative e gli eleganti arrangiamenti di oggetti di Tom Burr il cui approccio è contemporaneamente di tipo romantico e celebrale; così come l’essenzialità di Helen Mirra nel realizzare sculture incentrate sui rapporti di estensione e durata temporale, dialoga con gli assemblaggi apparentemente incoerenti di Abraham Cruzvillegas che giustappongono materiali organici e prodotti industriali, e con la pittura di Richard Aldrich che si muove sul crinale tra la visione giocosa di un bambino e l’astrazione. Ma tutto ciò, tutte queste possibili narrazioni e connessioni non sono nate a-priori e non vogliono portare ad una lettura univoca ne’ generare una chissà quanto arguta regia curatoriale, se non quella che risponde al mero fatto di essermi limitato empaticamente e istintivamente a scegliere i pezzi più facili a cui potessi pensare”. (Vincenzo de Bellis)